PERLEDO – A dieci giorni dalla scomparsa di Alberto Ongania, cuoco 53enne, il fratello Renato avvia un’azione di protesta “in stile Pannella” perché ancora non ci sono i tabulati.
“La mattina di lunedì 21 novembre mi sono recato ai Carabinieri per denunciarmi. Ho rilasciato una dichiarazione spontanea in cui ho informato le autorità che nei giorni precedenti ho violato la Privacy di Alberto, nel suo interesse, nel tentativo di assistere le forze dell’ordine impegnate nelle ricerche, loro stesse hanno avuto accesso al computer di Alberto, alla sua corrispondenza e-mail e quant’altro nel tentativo di rintracciarlo. Non avrei, e forse non avremmo, potuto farlo in base alla legge? Ma cosa è giusto fare: cosa è più importante, tutelare la vita o tutelare la privacy? Lì per lì, nessuno ha avuto dubbi: tutelare la vita. Ha prevalso il buonsenso.
A distanza di 10 giorni dalla sua scomparsa, stante l’impossibilità di accedere ai tabulati telefonici perché non sono prefigurabili ipotesi di reato, ho fatto di più: ho tentato di avere da PosteMobile un rendiconto delle sue chiamate in uscita relativamente al giorno della sua scomparsa, paradossalmente non ancora disponibili. Ho firmato un modulo di richiesta apponendo la mia firma senza specificare che agivo per conto di mio fratello e mandato la richiesta via fax. Ho segnalato la mia condotta, che viola il DPR 445/2000, auto-denunciandomi, e segnalato anche che ho disatteso il Codice sulla Privacy andando a cercare nel suo computer elementi per poter capire dove fosse finito mediante il tracciamento di Google, entrando nel suo account.
Ho segnalato di aver concorso sia ad aprire la sua corrispondenza, sia a tentare di richiedere al suo operatore telefonico (per conto di Alberto) le chiamate effettuate il giorno della sua scomparsa. Ho successivamente corretto tale condotta ‘penalmente rilevante’ citando l’art. 4 del DPR 445/2000 per non trarre in inganno PosteMobile spa e facendo presente che sono stato io a richiede le chiamate telefoniche in uscita dell’utenza di Alberto, poiché ‘impossibilitato’.
Perché occorre chiedere il permesso a un magistrato se è opportuno e legittimo violare la privacy delle comunicazioni mobili, se non abbiamo avuto alcuna remora nell’entrare nella vita privata di Alberto, con il suo computer, ispezionando persino il suo letto? A che gioco stiamo giocando? Un operatore telefonico non è supposto a salvare una vita umana, le istituzioni sì. Ma se la legge è scritta coi piedi? Ci si può limitare alla sua ferrea applicazione?
Di fronte alla cecità del Legislatore che ha partorito una normativa che rende prevalente la tutela del diritto alla privacy, soffocando il diritto alla vita, ho ritenuto di violare consapevolmente la legge e ho deciso di assumermi tutte le responsabilità del caso, incluso il carcere.
Non posso pretendere che gli Uomini dello Stato violino la legge per tentare di salvare Alberto, sarebbe come chiedere un martirio… non è la strada, non sarebbe giusto e rispettoso per la divisa che portano, e non l’ho fatto, anzi ho cercato di non coinvolgere le forze dell’ordine. Ho voluto metterci il mio collo, quello di un comune cittadino, senza alcuna protezione di ruolo. Nel mio agire, impulsivo, sono legittimato dalla scala di valori che i miei genitori mi hanno trasmesso unitamente alla scuola, la comunità… e la mia integrità personale, ma anche dall’assiologia valoriale che decodifico e riconosco nel suo splendore fulgido nella Costituzione.
Non posso accettare supinamente che una legge stupida finisca per avere effetti omicidi, foss’anche solo per una singola casualità di concorso di concomitanze che nel suo complesso non costituisce una fattispecie normabile. Lo stato di diritto è vulnerabile, e lo vediamo quando ci sono crimini non coperti dal codice penale perché rutto di una scientifica applicazione della legge, un circolo vizioso: la legge concepita idealmente per tutelare la Vita, finisce per rendere la vita meno importante della tutela della privacy, uccide.
Ho deliberatamente commesso tali reati quando ho osservato il combinato disposto di una legge che lascia tutti noi nella pienezza della legalità, dove ognuno rispetta la legge al 100% – a fa il suo dovere, e, parallelamente, l’impossibilità di accedere ai dati telematici di geolocalizzazione del cellulare di Alberto (almeno quelli!), assolutamente essenziali per il suo ritrovamento e soccorso sin dalla mia denuncia del 12 novembre al 112. La disvelazione di tali triangolazioni sicuramente violerebbe la privacy di Alberto, ma con altrettanta certezza, sono informazioni che dal 12 novembre potevano, e forse ancora possono, fare la differenza tra ‘ricerca’ e ‘ritrovamento – soccorso’. E aprendo la forbice, tra la morte e la vita.
Quando ho formalizzato la denuncia di scomparsa di mio fratello, ho ovviamente segnalato le sue precarie condizioni di salute: epilessia, parziale cecità, problemi cardiaci, la necessità di proseguire la sua terapia farmacologica salvavita, e l’urgenza di attuare immediate ricerche per cercarlo e soccorrerlo. Ciononostante non abbiamo mai avuto disponibilità dei dati di geolocalizzazione, veramente assurdo, ingiusto, inaccettabile, l’impotenza della tutela della vita magnificata dal rispetto della legge.
La Prefettura ha coordinato tre giorni di battuta del nostro territorio e in quello di Bellano ed Esino Lario il 13, 14 e 16 novembre. Conservo un diario di questa tragedia. La mancanza di ulteriori segnalazioni di avvistamento, nuovi elementi, e la perdurante impossibilità di accedere ai dati del cellulare, di fatto, nella piena legalità, ha determinato la sospensione delle ricerche; che sono proseguite solo dai famigliari e dai volontari che via via si sono uniti alla famiglia in maniera autonoma, ma senza i mezzi e le risorse tecniche dell’impianto di soccorso della macchina istituzionale.
La vergogna del fallimento del sistema paese, che sto vivendo nel caso specifico di mio fratello, mi ha portato a riflettere. In tutta coscienza non posso tollerare che non sia possibile accedere alle triangolazioni delle celle telefoniche dell’utenza di una persona che ha bisogno di cure farmacologiche per vivere, e che per qualche ragione non è rincasata. Questa non è la civiltà postulata dai padri costituenti e modellata dalla Costituzione; notte e giorno rifletto su questo.
Qualcuno deve mettere a disposizione il proprio collo e invocare il boia, il carnefice, in questo caso lo Stato, e chiedere di ‘rispettare la legge’, legalità: quindi l’autodenuncia perché io possa essere punito in base alla legge, solo così, forse, emergerà un elemento di verità che supera l’abuso di legalità, l’indignazione rispetto a una legge che non tutela la vita dei più deboli (epilettici che si perdono perché hanno crisi stereotipate per esempio), ma un generico – pur importante – diritto alla privacy.
Non so se la mia protesta nonviolenta, di matrice “pannelliana”, sarà capace di riformare il sistema. Me lo auguro per gli Alberto di domani. Ho ritenuto in cuor mio e in piena coscienza che fosse urgente e necessario”.