PERLEDO – Ha fatto e sta facendo discutere in questi giorni e ore la questione delle “croci di vetta“, sollevata dal CAI e ripresa in una lettera pubblicata oggi sui nostri quotidiani on line.
Al proposito, ospitiamo un lungo e argomentato intervento del perledese Renato Ongania – dai contenuti al solito interessanti e in grado di stimolare la discussione su un tema tutt’altro che ozioso.
Ecco il suo testo, gentilmente concesso alla nostra testata:
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Un articolo di Pietro Lacasella del 23 giugno scorso, pubblicato su Lo Scarpone, organo in house del CAI, ha titolato “Croci di vetta: qual è la posizione del CAI?”
“Lasciare integre le croci esistenti, perché testimonianze significative di uno spaccato culturale, e allo stesso tempo evitare l’istallazione di nuovi simboli sulle cime”.
(https://www.loscarpone.cai.it/dettaglio/croci-di-vetta-qual-%C3%A8-la-posizione-del-cai/)
A distanza di poche ore i media (compreso Lario News) hanno ripreso la “notizia”, ovvero che il CAI ha una posizione sulla faccenda…
Non ho potuto far altro che interrogarmi sulle croci di vetta, in particolare su una croce spezzata probabilmente da un fulmine che mi è rimasta nel cuore, in Friuli Venezia Giulia, nel Parco delle Prealpi Giulie… una delle mie mete alpinistiche preferite.
Al di là della mia personale affinità per le croci di vetta con cui mi relaziono molto volentieri, la presenza delle croci cristiane in cima alle montagne è al centro del dibattito da decenni. Il tema trova alpinisti che la pensano in un modo e altri che la pensano in un altro modo. È opportuno collocare questo simbolo nel punto più elevato dei monti?
Personalmente credo che l’interrogativo faccia breccia nell’attenzione dei lettori perché offre la possibilità di rispondere “Sì” oppure “No”, quasi ideologicamente, attiva una sorta di riflesso condizionato, ma per usare una chiave di lettura più funzionale e tentare di comprendere il fenomeno prendaimo a prestito un’intuizione di Vittorino Andreoli, messa su carta attraverso il libro “L’uomo di superficie” (Feltrinelli, 2010).
Andreoli analizza come l’immagine di sé stessi sia spesso influenzata da fattori esterni come il successo, la bellezza fisica e la ricchezza, mentre la vera identità di una persona si trova spesso sotto la superficie. Sottolinea anche l’importanza di tornare a un’autentica comprensione di sé stessi e degli altri, per poter creare relazioni genuine e significative. Il libro è stato molto apprezzato per la sua capacità di far riflettere sui temi dell’identità e della superficialità nella società moderna.
Facciamo finta di credere che il libro attivi una volontà di riflettere sulla superficialità della società moderna e decliniamo il tutto all’opportunità delle croci di vetta.
Esimi interlocutori affermano per esempio: “È giusto che rimangano perché sono un segno del territorio. Nel corso dei secoli, le croci sono state messe dai montanari che, anche in questo modo, cercavano di esorcizzare la paura che la montagna ha, da sempre, generato tra la popolazione delle valli, che la credevano abitata da mostri e demoni. Allo stesso tempo credo che non se ne debbano mettere di nuove. Così come si dovrebbe limitare l’apposizione di targhe e segni per ricordare i caduti in montagna” (Marco Albino Ferrari, direttore editoriale e responsabile attività culturali del Club alpino italiano in Avvenire.it “Montagna. Croci di vetta, simboli da custodire” di Paolo Ferrario, 24 giugno 2023).
L’articolo di Avvenire continua con “Conservare l’esistente, magari restaurando le croci ammalorate, senza aggiungere altro è anche la linea sostenuta da Ines Millesimi, che, nel contesto di un dottorato di ricerca per l’Università della Tuscia, ha catalogato, per la prima volta, le croci di vetta dell’Appennino, sopra i duemila metri di quota”.
Millesimi afferma: “La croce non può essere un segno divisivo”.
“Ma lo è”, si potrebbe opporre, perché la croce è un segno religioso e non occorre un dottorato di ricerca per scoprire che i segni religiosi (o civili) “marcano” il territorio, sin dai tempi degli antichi, a questo riguardo propongo un saggio pubblicato qualche mese fa: La croce come simbolo: un’analisi semiotica (link: https://www.academia.edu/98960219/La_croce_come_simbolo_unanalisi_semiotica)
Volendo scomodare un altro intellettuale che si è impegnato per decodificare quella superficialità a cui ha fatto riferimento anche Andreoli, De Rita, troviamo che nel rapporto del Censis scrisse che siamo una società che vive nel rattrappimento del presente (link: http://data.over-blog-kiwi.com/0/46/88/98/201302/ob_3cf2df_rattrappimento-del-prersente-mese-sociale-2011.pdf)
Se è vero che non c’è nulla da apprezzare, studiare, comprendere… che si è persa anche la memoria di comunità (Umberto Eco parla di “memoria collettiva”, ci torniamo più avanti nel testo), è perché non c’è più la comunità di una volta.
A tutto ciò verrebbe da opporre che “Ogni croce o crocefisso su una cima della montagna o in qualsiasi gesuolo lungo anche i sentieri abbandonati, è un pezzo della memoria di comunità, sia pur con significati diversi, nelle diverse epoche”.
A Perledo siamo riusciti a censire e mappare più di cinquanta edicole votive, mediante una partecipazione corale di più cittadini, la comunità si identifica in quei segni non perché li conosce in senso stretto, ma perché li riconosce almeno esteticamente come propri, del proprio paesaggio. Segni dell’Uomo che ha abitato quel territorio, lo stesso discorso vale (varrebbe) per le croci di vetta.
Umberto Eco ha affrontato il tema della memoria collettiva in diversi scritti e interviste. Secondo l’autore italiano, la memoria collettiva è un aspetto fondamentale della cultura e della storia di una società, in quanto permette alle generazioni presenti di conoscere e comprendere il passato della propria comunità. Eco ha anche sottolineato che la memoria collettiva non è un’entità omogenea e univoca, ma è costituita da molteplici narrazioni e interpretazioni che si intrecciano tra loro. In altre parole, la memoria collettiva non è un insieme di fatti oggettivi, ma è influenzata dalle percezioni, dalle emozioni e dalle interpretazioni soggettive che le persone attribuiscono al passato. Inoltre, Eco ha anche evidenziato come la memoria collettiva sia spesso strumentalizzata per fini politici o ideologici, utilizzando una selezione di elementi del passato per giustificare il presente o promuovere un’agenda specifica.
Ci sono diversi libri di Umberto Eco in cui l’autore parla del concetto di memoria collettiva e delle sue implicazioni culturali e sociali. Ecco alcuni dei suoi libri più famosi in cui tratta questo tema:
· “Il nome della rosa”: questo romanzo storico ambientato nel XIV secolo tratta la memoria collettiva come uno dei temi centrali della trama. Il protagonista, il frate francescano Guglielmo di Baskerville, deve infatti decifrare una serie di enigmi per svelare un oscuro segreto legato alla biblioteca del monastero in cui si trova. In questo contesto, Eco analizza come la memoria collettiva e la conoscenza storica siano importanti per comprendere il presente.
· “Lector in fabula”: in questo saggio sull’arte della lettura, Umberto Eco analizza come la comprensione di un testo sia influenzata dalla memoria collettiva e dalla conoscenza culturale condivisa. In particolare, l’autore sottolinea come il significato di un testo possa essere influenzato dalle conoscenze storiche, letterarie e culturali che l’autore e il lettore condividono.
· “Storia della bellezza” e “Storia della bruttezza”: questi due libri, scritti in collaborazione con Girolamo De Michele, analizzano l’evoluzione del concetto di bellezza e di bruttezza nel corso della storia dell’arte e della cultura. In questo contesto, Eco tratta il tema della memoria collettiva come un fattore determinante per comprendere le diverse valutazioni estetiche che si sono succedute nel tempo.
· “Apocalittici e integrati”: questo saggio, pubblicato nel 1964, analizza il ruolo dei mass media nella società contemporanea. In questo contesto, Eco affronta il tema della memoria collettiva come un fattore importante per comprendere come i media influenzino la percezione del passato e del presente.
Prendendo a prestito la provocazione di Andreoli, tenuto conto dell’analisi di De Rita, usando la visione di Eco secondo cui la memoria collettiva va considerata come un insieme di interpretazioni soggettive e spesso strumentalizzate per fini politici o ideologici, è dirimente, oggi, poter elevare il dibattito sulle croci di vetta come richiede Lacasella: andare al nocciolo della questione, perché c’è quella croce su quella vetta?
Solo rispondendo a questo genere di domande potremo prenderci responsabilità della nostra ignoranza e legittimare un interesse genuino verso le croci di vetta, diversamente il nostro contributo al dibattito sarà quello di aggiungerci ad altri speculatori su un tema potenzialmente e ontologicamente unificante, ma nella modernità, per come è percepito, altamente divisivo. La posta in gioco è altra, è l’identità della comunità stessa, quella che ospita la montagna e ospita quel Segno.
Per concludere, ognuno si attacca a quel legno (o a quel ferro) dopo aver compiuto una salita, un percorso, e lo può fare come ricompensa, perché ha compiuto quel percorso. Ognuno in modo differente. La croce è e resta un segno, secondo me va interpretato in maniera causativa come la quasi totalità dei segni che ci vengono proposti o ereditiamo come civiltà.
Renato Ongania