Con chi costruiamo il futuro se il Censis dice che la scuola è la fabbrica degli ignoranti?
Dal diritto allo studio dobbiamo tornare al dovere dello studio.

di Valerio Ricciardelli
studioso ed esperto di Technical Education

L’autore (nostro columnist)

C’è ancora un po’ di clamore, misto a preoccupazione, sui dati dell’ultimo rapporto Censis a proposito del nostro sistema scolastico che, senza mezzi termini, è stato definito la “fabbrica degli ignoranti”, quando dovrebbe invece essere la “fabbrica del futuro”.

La preoccupazione è nel guardare al futuro con la consapevolezza che la produzione di ignoranza è causa dei molto disagi giovanili con le più variegate degenerazioni; dell’analfabetismo funzionale che ormai sta raggiungendo livelli patologici; della mancanza di quei saperi e di quelle competenze per comporre i mestieri mancanti che servono per dare un futuro al Paese nelle difficili sfide che lo attendono.

Per reagire alla mia preoccupazione, occupandomi di “futuro”, ne ho approfittato per scrivere diverse note, di cui anche Paolo Pagliaro ne ha fatto pubblicazione.

https://www.9colonne.it/496530/la-carenza-di-tecnici-br-e-la-fabbrica-dell-ignoranza

Questa volta, prima che il clamore si assopisca come sempre succede, voglio riprendere l’argomento un po’ da lontano. Vorrei tornare al dovere allo studio che sentivano le famiglie e i giovani di un tempo e che anticipò di molto l’applicazione del diritto allo studio. Quel senso del dovere, che c’era nel passato, consentì di costruire “quel futuro” che oggi è il nostro presente. Di questo presente ne stiamo ancora usufruendo dei suoi benefici, seppur in una situazione di un precario galleggiamento in continuo peggioramento.

Ero stato colpito qualche decennio fa da Padre David Maria Turoldo, quando disse che già allora eravamo un popolo di astorici, perché le giovani generazioni di quei tempi non conoscevano il passato e quindi la storia, e senza la conoscenza del passato non sarebbe stato possibile costruire il futuro.

E non si riferiva solo alla storia che si studiava a scuola, ma alla comprensione che la vita è un percorso che si sviluppa da un passato, che non è solo roba vecchia da buttare ma anche da conoscere, farne un buon uso e riattualizzarla con il presente per prendere quanto c’è ancora di buono per utilizzare a costruire il futuro.

Passato e futuro, attraverso il presente, sono strettamente legati e funzionali tra loro.

Rapporto Censis 2024: un italiano su cinque non sa chi è Mazzini, il 41% crede che l'autore dell'Infinito sia D'Annunzio - Notizie ScuolaQuesto concetto lo ha poi ribadito il Censis più di 10 anni fa, quando scrisse che la nostra società ormai viveva solo nel rattrappimento del presente, dove l’argomentare è totalmente scollegato dall’asse temporale, dove c’è un presente perché c’è un prima (il passato) e un dopo (il futuro), ma noi siamo concentrati solo sul fotogramma dell’attimo e questo stimola solo l’emozione, sostituendo la visione dello spezzone del film dell’evento che dovremmo considerare e che abbisogna invece dell’uso della ragione.

Che il livello degli apprendimenti nel nostro sistema scolastico fosse tra i peggiori tra i paesi dell’OCSE lo si sapeva già da tempo. Lo avevano scritto in molti, ma l’allarme non aveva mai provocato nessuna reazione. Anche gli ultimi dati della scorsa settimana sull’analfabetismo funzionale sono sconfortanti.

La provocazione del recente rapporto Censis ha scatenato non pochi dibattiti; molti incardinati sulle solite “chiacchere del nulla”, discutendo spesso di cosa dovrebbe fare la scuola, che pur ha delle responsabilità enormi e di quali investimenti dovrebbe fare lo Stato o anche le imprese, quasi che la responsabilità di istruire e formare noi stessi fosse un dovere e una priorità di cui dovrebbero occuparsi e investire solo gli altri.

Allora, il punto di ripresa dell’argomento è la domanda che ormai è diventata virale: che classe dirigente avremo se la scuola produce ignoranti?

Per non confondere i saperi e le competenze che servirebbero al sistema economico del Paese per la sua crescita, con le conoscenze di base di cui parla il Censis, occorre una precisazione. I saperi richiesti dalle nostre imprese per far fronte alle loro esigenze e che in parte mutano nel tempo, sono i tasselli per costruire i mestieri, le professioni, affinché ognuno di noi possa esercitare con buone prestazioni e gratificanti soddisfazioni il suo ruolo nella Società.

Ma tutti questi saperi e le competenze che ne conseguono e che oggi sono mancanti o non sufficienti – per le quali ho scritto un libro e tanti articoli – devono poggiare a loro volta su delle fondamenta solide, che sono le conoscenze di base, che originano dagli insegnamenti di base che si devono apprendere a scuola. Esemplificando con il lessico del passato significa che dapprima dobbiamo: saper leggere, ovvero comprendere bene le cose, saper scrivere, che vuol dire saperle argomentare e far di conto che significa sapere usare anche la logica. A queste prime essenziali conoscenze di base se ne aggiungono poi tante altre che compongono i curricula scolastici.

Questi insegnamenti di base sono assolutamente propedeutici per “costruirci sopra” tutti gli altri ulteriori insegnamenti. Oggi, come scrive il Censis, per una parte rilevante soprattutto delle scuole di cui avremmo più bisogno (fatte salve le solite eccezioni che per fortuna ci sono sempre), queste conoscenze di base sono deficitarie, non più solide. È come se fossero cedute le fondamenta. Eppure, nonostante il cedimento delle fondamenta, quegli studenti sono poi promossi e alla fine del loro percorso scolastico anche diplomati. Questa situazione, che genera delle conseguenze importanti, legittima la domanda: che classe dirigente avremo domani?  

Per classe dirigente non intendiamo solo coloro che dovranno ricoprire incarichi di alta responsabilità. Col termine “classe dirigente” comprendiamo una popolazione vasta di soggetti: coloro che avranno delle responsabilità, grandi o piccole che siano o per esercitare un mestiere o nel condurre una impresa, o nel lavorare nella pubblica amministrazione, o nell’essere pubblici amministratori e quindi occuparsi del bene comune.

Per andare ancora più in profondità e stimolare qualche riflessione che ci porti ad una maggior consapevolezza dell’emergenza che stiamo vivendo, torno ancora al passato, quello che non conosciamo e che ignoriamo e che spesso pensiamo che non serva più, perché oggi sappiamo già tutto.

In quel passato, che origina dalla vita dei nostri nonni e dei nostri genitori, c’era invece la consapevolezza, la priorità e l’impegno che si dovessero “mandare i figli a studiare”, perché quella scelta era necessaria per costruire, non solo il loro futuro, ma anche quello del Paese.

C’era già sottesa nei comportamenti delle famiglie di quei tempi una social responsability primordiale. Il verbo “mandare” aveva però un preciso significato. Siccome non c’erano le scuole ovunque e anche i trasporti non erano diffusi come oggi, occorreva “mandare” i ragazzi nei collegi. Nel nostro territorio, per i maschi si ricorreva per lo più ai collegi dei Salesiani: a Vendrogno, poi a Milano oppure a Sondrio, ma non va dimenticato anche quello dei padri Betharramiti di Colico. Per le femmine i collegi delle suore di Lecco.

La maggior parte dei giovani di quei tempi del nostro territorio sono passati per quegli istituti. Addirittura, a Vendrogno si mandavano i ragazzi a frequentare la quinta elementare, talvolta ripetendo l’anno che avevano già frequentato nei paesi di provenienza. C’era infatti una grande sensibilità nei genitori nel comprendere la qualità della “scuola”, riconoscendo che la quinta elementare dei salesiani di Vendrogno fosse ben più “solida” delle quinte elementari dei paesi da cui provenivano i ragazzi. Anche se non sempre questa soluzione era necessario, la prudenza delle famiglie consigliava questa scelta.

E da quei collegi non si rientrava a casa il sabato e la domenica, perché quello che oggi chiamiamo il week end, era il tempo che doveva essere riempito con parecchie ore di studio.

D’estate poi i giovani studenti dovevano lavorare, spesso facendo lavori umili e senza particolari tutele dei diritti dei lavoratori. Il lavoro estivo serviva per guadagnare qualche soldo che aiutasse a pagarsi gli studi. Rispetto la tutela del diritto dei lavoratori era prioritario il misero guadagno dei pochi soldi estivi, perché era funzionale al processo che avrebbe consentito l’applicazione al dovere allo studio.

Non c’è da meravigliarsi che quelle attività lavorative, spesso anche faticose, avessero anche una funzione formativa talvolta più efficace degli stage odierni o dell’alternanza scuola lavoro poi detta PCTO. In quei luoghi di lavoro, si imparava di tutto, compreso ad arrangiarsi nelle diverse difficoltà in cui si era immersi, e ben di più di quelle che oggi sono chiamate le soft skills. Non si parlava di diritto allo studio inteso come la possibilità che tutti potessero “andare a studiare”. Il diritto allo studio degli studenti era garantito solo dagli “investimenti” fatti dalle loro famiglie – gran parte appartenenti al ceto basso – attraverso il pagamento delle rette dei collegi. Si parlava invece di dovere allo studio, rivolgendosi ai giovani per raccomandare l’adeguato impegno a scuola, perché i risultati di apprendimento fossero il giusto ritorno sull’investimento fatto dalle famiglie.

Posso sostenere che mai altri investimenti in educazione e istruzione furono migliori. Oggi invece c’è una quantità di soldi del PNNR, presi a debito, spesi per la scuola, che non si sa quanti e quali risultati produrranno. Aiutarono invece i giovani del passato e le loro famiglie, le prime borse di studio che alcune organizzazioni anche mutualistiche istituirono a beneficio degli studenti   più meritevoli.

Nel territorio merita certamente menzione la Cassa Edile della provincia di Como, che allora comprendeva anche il territorio che oggi è in provincia di Lecco. Per merito del suo presidente, che all’epoca era, l’ing. Vico Valassi, già nel 1967 istituì, prima in Italia, le borse di studio per i figli dei lavoratori del settore dell’edilizia. Ne beneficiarono gli studenti meritevoli delle scuole medie, delle superiori e dell’università, con cifre che a quell’epoca erano considerevoli. Quell’iniziativa fu certamente uno dei primi ascensori sociali, o addirittura il primo ascensore sociale che permise ai figli degli operai di iniziare a beneficiare anche del diritto allo studio. Le cerimonie di premiazione, che coinvolgevano un numero ragguardevole di studenti si svolgevano a Como nei saloni di Villa Olmo, ed erano accompagnate dagli appassionati discorsi dell’ing. Valassi, che i genitori di quel tempo raccomandavano ai loro figli premiati di ascoltare con grande attenzione, perché a tutti gli effetti erano le prime attività di orientamento scolastico e al lavoro, dove si sottolineava la grande importanza dello studio.

Quanta gratitudine va ancora espressa a Vico Valassi! Da giovane studente fui testimone diretto di tanti di quegli eventi.

Gli studenti, che si sono poi istruiti e formati con sacrificio di studio e con il lavoro delle loro famiglie, hanno poi costituito la classe dirigente del Paese. Non solo sono stati provetti lavoratori, ma molti nel nostro territorio anche imprenditori, si pensi solo al settore della meccanica con tanti qualificati o diplomati nelle scuole salesiane. Ma in più, tanti di costoro sono stati pubblici amministratori, occupandosi del bene comune.

Forse, anziché recriminare su quanto non funziona a scuola-e di cose che non funzionano ce ne sono tante-varrebbe la pena che imparassimo un po’ dal passato e che rimettessimo al primo posto il dovere allo studio, che non è fatto di scorciatoie e che non è “roba” di cui si devono occupare solo gli altri, ma è il primo dovere per ogni studente e le loro famiglie. È la ricetta per creare la classe dirigente di domani.

Ma qui serve una rivoluzione culturale che deve partire da tutta la Società per far sì che la scuola torni ad essere la fabbrica del futuro. Anche la politica, se c’è, batta un colpo.

 

> IL “TERRIBILE” RAPPORTO CENSIS SUL SISTEMA SCOLASTICO ITALIANO