La ballerina è immobile, ritta sulla punta del piede della gamba sinistra. La destra, invece, è piegata a novanta gradi, in modo che il piede vada ad appoggiarsi al ginocchio dell’altra gamba.

La ballerina veste di bianco, con il corsetto aderente e il gonnellino rigido. Sulla testa, tra i capelli, spuntano roselline, anch’esse bianche. Il braccio sinistro, speculare alla gamba destra, forma l’inevitabile angolo a novanta, con la mano a raggiungere la sommità del capo. L’altro braccio, invece, è sollevato e piegato all’altezza del collo. Nel complesso, la posa è assolutamente perfetta.

La ballerina aspetta immobile, senza fiatare. Parte la musica. A quel punto, prende vita: i suoi movimenti sono fluidi, precisi, impeccabili. A ritmo di melodia, braccia e gambe si uniscono e si separano, si distendono e si contraggono, intanto che il busto ruota in una direzione piuttosto che in un’altra. Sempre sulle punte, la ballerina si esibisce in tutto il suo spettacolare repertorio; il viso inespressivo non tradisce la minima emozione.

All’improvviso, però, quando tutto sembra andare alla perfezione, ecco che i movimenti della ballerina si fanno legnosi, pesanti, disarticolati: braccia e gambe, gettate qua e là,  prendono a cozzare tra loro e contro il resto del corpo. Tanto era armonico prima il ballo, quanto ora s’è fatto assurdo, sbagliato. Pure la musica s’è fatta stridula, insopportabile.

La ballerina, stoicamente, e con espressione impassibile, prosegue nei movimenti, ma questi ormai non hanno più nulla a che vedere con la danza. Finalmente, dopo l’ennesimo allucinante vorticare di arti, la ballerina cede di schianto e crolla a terra. Il carillon s’è rotto.

Emanuele Tavola