In questi giorni si è parlato e scritto parecchio sul tema del mismatch tra la domanda e l’offerta nel mercato del lavoro, utilizzando un inglesismo che forse non piacerà a coloro che sono impegnati nella proposta di legge per l’abolizione dei termini inglesi, ma che evidenzia invece l’esistenza di un grande problema che sta incidendo sulle nostre aziende, sulla nostra economia e sulle nostre vite.
Mismatch – Connecting people across distance and divides to engage in respectful, face-to-face conversations

Abbiamo ospitato nelle nostre colonne una opinione dell’ingegner Valerio Ricciardelli, che conosce molto bene questo argomento e che ha commentato, con alcune sue riflessioni che meritano di essere riprese, un recente articolo apparso sul Sole 24 Ore, che riportava la mancanza in Italia di ben 140 mila tra diplomati e laureati di cui avrebbero bisogno le aziende.

Negli stessi giorni si è parlato dello stesso argomento, in occasione della visita nel nostro territorio dell’assessore regionale Simona Tironi, con delega all’Istruzione-Formazione-Lavoro, che ha ribadito quanto sta facendo la Regione Lombardia, anche in termini di politiche attive del lavoro, tanto da far dire al sottosegretario Mauro Piazza che, tramite le politiche regionali, si sono riscontrate molte risposte riguardo la diminuzione di mismatch tra domanda e offerta del mondo del lavoro.

L’assessore ha poi aggiunto che “la formazione, oggi più di ieri, è un tassello imprescindibile e che la volontà è quella di mettere al centro la persona seguendola dai primi passi fino all’età del pensionamento”

Skill-mismatchVisto l’interesse, l’importanza e la complessità dell’argomento, abbiamo voluto di nuovo intervistare l’ingegner Ricciardelli, che spesso nei suoi scritti ci indirizza ad analizzare questi argomenti in una prospettiva più ampia, quella che lui chiama una “visione di sistema”, dove si mettono assieme l’economia, l’istruzione e la formazione, e un termine inglese di cui fa ampio uso Ricciardelli, che è l’employability, che significa, mal tradotto, l’occupabilità delle persone.

INTERVISTA A CURA
DI SANDRO TERRANI,

DIRETTORE RESPONSABILE
LARIO NEWS

Ingegner Ricciardelli, da qualche giorno si parla di mismatch tra domanda e offerta nel mercato del lavoro, ma gli addetti ai lavori sanno cos’è effettivamente questo mismatch, da cosa dipende, o si concentrano solo sugli effetti prodotti, dove si è detto che nel 2022 le diverse aziende hanno riscontrato una difficoltà pari al 47% nel trovare personale qualificato da inserire nei loro organici?

Intervista a Valerio Ricciardelli - YouTubeLa domanda richiede una risposta molto articolata, che non si riesce a dare nello spazio di una intervista o di un articolo. Provo comunque a buttare lì delle semplici considerazioni per andare un po’ più in profondità.

Un conto è dire cos’è il mismatch e quindi limitarsi all’effetto del fenomeno, senza comprenderne tutte le effettive cause.

Un conto è capire come il mismatch è cambiato nel tempo e soprattutto come cambierà nel prossimo futuro. Per inciso, ricordo solo che il termine inizia ad affacciarsi nel mondo del lavoro nei primi anni Ottanta del secolo scorso, con la dizione skill mismatch, che significava la mancanza di specifiche competenze nel mondo industriale per mettere a valore l’impressionante innovazione tecnologica sulle macchine e sugli impianti produttivi di nuova generazione di ogni settore economico. Sarebbe interessante parlarne per comprenderne la genesi, che risale alla più importante exibition dell’industria europea, la fiera di Hannover in Germania, uno degli osservatori dove non si può mancare, per vedere non solo dove va il mondo delle tecnologie, ma anche quali competenze e professioni sono necessarie per gestirle.

Tornando a noi, dopo l’inciso, un conto è capire da cosa dipende il mismatch, e mi consenta di evidenziare che è una “funzione matematica” molto complessa, dipendente non in modo lineare da tante variabili, a loro volta mutevoli.

Un conto è poi dire quali sono gli effetti diretti e indiretti del mismatch sull’economia, sul mondo del lavoro, sulle politiche scolastiche e sul funzionamento complessivo della società

E infine, come mettere mano ai problemi generati dal mismatch.

Per fare capire meglio l’articolazione dei ragionamenti, potremmo usare l’approccio clinico allo studio dei sistemi o anche solo al processo di disallineamento tra la domanda di personale e l’offerta.

FebbreIl mismatch che in questi giorni è stato rappresentato dalla percentuale del 47%, indicante la difficoltà delle imprese a trovare personale qualificato da inserire nei loro organici, ci indica solo lo stato febbrile della situazione. Quindi il mismatch, quando i valori percentuali sono così alti, ci dà la misurazione di un malessere importante che sicuramente ha tante cause, che molto spesso sono mutevoli nel tempo, ma che vanno investigate con molta attenzione.

In poche parole, va individuata la funzione matematica che rappresenta il mismatch, con tutte le sue variabili principali. Solo da lì si può cominciare a capirne qualcosa.

Oggi però ci sono tante iniziative e di varia natura per far fronte a questo problema così come è stato raccontato anche a Lecco, e probabilmente tanti soldi, che spesso lei dice che sono troppi, con il rischio di spenderli male. Queste iniziative, secondo lei sono efficaci?

La mia analisi non è rivolta alle singole iniziative; sicuramente ce ne sono diverse e anche di buone, ma la profondità dell’analisi, sia pur difficile da spiegare in una intervista, riguarda il sistema complessivo: economico, dell’istruzione e della formazione, e del mercato del lavoro.

È da tempo che scrivo che tutti questi argomenti, che sono complessi e pluridimensionali, devono essere affrontati congiuntamente nella cosiddetta filiera delle tre E: Economy- Education-Employability.

Poi per rispondere alla domanda, facciamoci a nostra volta una domanda semplice. Oggi l’indicatore dello stato febbrile segna il 47% e teniamo conto che è una “media della media”, mentre avremmo bisogno per comprendere meglio, di avere degli indicatori suddivisi per territori, per settori economici, per tipologie di aziende e per altri criteri di classificazione; la domanda allora sarebbe: dopo tutti gli interventi che si sono fatti e che si stanno facendo, come sarà l’indicatore dello stato febbrile tra un anno, tra tre anni, tra cinque, ecc.?

E aggiungo anche, com’erano gli indicatori dello stato febbrile negli anni precedenti? Migliori o peggiori di quello odierno?

Queste sono le primissime domande che ci dobbiamo fare.

E la sua risposta?

La tendenza è sicuramente peggiorativa, lo stato febbrile è in peggioramento.

Ciò significa che le misure messe in atto nel passato non sono state, finora efficaci o lo sono state poco e ciò ci fa dubitare, con alcune solide argomentazioni che richiederebbero molto più tempo per essere illustrate, che anche le misure odierne potrebbero non essere sufficienti, nonostante i tanti soldi investiti o in corso di investimento.

D’altra parte, sia sugli investimenti fatti, che su quelli che verranno fatti, non mi risulta che ci sia una chiara indicazione di quello che dovrebbe essere il cosiddetto ROI, inteso come il ritorno sull’investimento, almeno in termini economici (esempio: la crescita del Pil nel settore manifatturiero, la crescita delle esportazioni, la crescita della competitività come la riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto), in termini di qualità del sistema dell’education, in termini di employability (esempio: la crescita dei contratti a tempo indeterminato, la riduzione dei contratti precari, la prevenzione all’obsolescenza dell’employability per effetto di Industry 4.0). Calcolare per ogni iniziativa importante, in modo preciso, il suo “ritorno sull’investimento” aiuterebbe non solo a misurare con concretezza i risultati relativi agli obiettivi che si dovevano raggiungere, ma sarebbe la strada migliore da percorrere, per diffondere la cultura del “debito buono” in contrapposizione al debito cattivo, come auspicato più volte dal presidente Draghi.

Per essere più chiaro, e sempre usando l’approccio clinico allo studio di questo problema che possiamo identificare come una” importante patologia del nostro sistema economico e sociale”, osserviamo che di fronte a una malattia così importante, parte delle “terapie” messe in atto sembrano più i “rimedi della nonna” o della “farmacologia omeopatica”; al netto ovviamente di alcune buone pratiche.

Capisco che la risposta possa essere considerata anche una provocazione, e taluni potrebbero esporre per smentire quanto affermo, i loro casi di successo, ma le provocazioni nelle scienze manageriali che si devono occupare dei problemi complessi non servono per accusare qualcuno, ma per stimolare ulteriori ambiti di approfondimento.

Quindi c’è da chiedersi: stiamo affrontando problemi così complessi, con le soluzioni giuste?

E ancor prima, sempre usando l’approccio clinico, ci dobbiamo chiedere se abbiamo fatto l’anamnesi giusta e completa su tutto il problema e nella sua complessità, o se le nostre analisi sono il solo frutto di un “vissuto del passato” che invece non è più rappresentabile della situazione presente, e men che meno lo sarà del futuro?

Voglio aggiungere un’altra osservazione, pur correndo il rischio di dover sintetizzare troppo le cose importanti, riferendomi all’affermazione dell’assessore che lei cita: “la formazione oggi più di ieri è un tassello imprescindibile e che la volontà è quella di mettere al centro la persona seguendola dai primi passi fino all’età del pensionamento”.

Occuparsi della formazione della persona, seguendola dai primi passi fino al pensionamento, significa attuare una politica di LIFE LONG LEARNIG, che è una cosa molto complessa che non si implementa con la sommatoria di alcuni corsi da frequentare. Molti paesi hanno implementato politiche del genere. Non solo, ma l’Unesco, proprio per supportare le politiche di life long learning ha costituito una Global network of learning cities, che è una rete di comunità e di città di apprendimento, con una solida base nelle regioni sviluppate, anche se si sta rapidamente rafforzando nei Paesi in Via di Sviluppo.

Oggi 294 città in 76 Paesi, fanno parte della rete e sono molto attive con esperienze interessantissime. Personalmente ho partecipato al primo convegno mondiale di Pechino e ho contribuito alla progettazione del secondo convegno di Città del Messico, dove mi sono occupato delle professioni del futuro che apparteranno al green manufacturing.

Debbo però dire, con rammarico, che l’Italia è assente in queste iniziative, ed è difficile che da sola possa implementare politiche di life long learning, senza sapere di cosa si tratta e senza confrontarsi con chi queste cose le fa da tempo. Il benchmarking è la prima cosa che bisogna saper fare ed è anche facile da utilizzarsi.

Recentemente ho proposto al Sindaco di Lecco di inserirsi in questa Global network di città. Sarebbe un’occasione interessante per il nostro territorio. Bisogna anche osare.

Torniamo allora a chiederci se abbiamo capito bene i problemi generati dal mismatch e cosa possiamo fare.

Il mismatch patologico di cui soffre oggi il nostro Paese, con gradazioni differenti per ogni singolo territorio e per settore economico, è un fenomeno continuamente in forte mutazione che, nel futuro sarà ancor più diverso che nel presente. È un po’ come il virus del Covid, con tante varianti sempre in mutazione.

File:Matteo Maria Zuppi - cropped.jpg - Wikimedia Commons

Proviamo anche ad osservare quanto ha detto, in questi giorni, il cardinale Zuppi nella sua relazione all’assemblea dei vescovi italiani.

Zuppi dice: “Spesso le giovani coppie non riescono a costruire una famiglia semplicemente per la precarietà del lavoro o la mancanza di politiche di sostegno, a cominciare dalla casa”, aggiungendo che “il problema della famiglia ha una ricaduta diretta su un altro tema che, ormai si presenta come una drammatica tendenza negativa pluriennale: si tratta della crisi demografica. Secondo alcuni demografi, siamo un paese in estinzione”.

L’analisi di Zuppi è eloquente, e tira in ballo il problema demografico che ci fa dire che il mismatch del futuro sarà drammaticamente influenzato dal crollo demografico che porterà allo “svuotamento delle aule”.

La rivista Tuttoscuola solleva l’allarme da tempo, e recentemente è stato ripreso dall’autorevole quotidiano inglese The Guardian che ha pubblicato un articolo dal titolo: “La scuola italiana sta scomparendo, come i ghiacciai”.

“Le scuole italiane stanno scomparendo come i ghiacciai che si sciolgono”, lo ha detto Giovanni Vinciguerra, direttore di Tuttoscuola, intervistato dalla giornalista del The Guardian. “L’acqua è fonte di vita e le scuole sono essenziali per la società. Le cifre sono davvero impressionanti. Questo fenomeno è iniziato con le scuole dell’infanzia, e inevitabilmente si estenderà alle scuole primarie e secondarie”.

Il crollo demografico, se non interverremo sulle altre variabili sulle quali, sia pur in modo complesso, si può ancora agire, darà il colpo mortale alla nostra economia e a tutto quello che ne consegue.

Allora cosa si può fare?

Serious Prodi | Romano Prodi, former President of the Italia… | FlickrConcentriamoci, per ora, sul mismatch patito dalle aziende che sono in difficoltà a trovare i tecnici di cui hanno bisogno e focalizziamoci solo su un pezzo del problema, quello che riguarda le imprese soprattutto del settore industriale. Lo faccio citando Romano Prodi che, nel gennaio del 2016, sul Sole 24 Ore scrisse, a proposito della mancanza di tecnici e delle relative conseguenze:

“il nostro Paese ha bisogno di un forte rilancio dell’istruzione tecnica. Oggi siamo di fronte a un vero e proprio dramma: i nostri Istituti tecnici, che hanno formato la classe dirigente dando certamente un forte impulso al nostro sistema industriale vivono una profonda crisi. Dal 1990 sul totale dei diplomati della scuola secondaria gli allievi degli istituti tecnici sono passati dal 44% al 35% (aggiungo io che oggi sono ulteriormente scesi), mentre quelli dei licei sono passati dal 30% al 45%: un calo drammatico dell’istruzione tecnica. Occorre mettere in chiara luce le cause di questo fenomeno”.

Sempre Prodi aggiunge: “La prima causa è la mentalità dei genitori che erroneamente ritengono gli istituti tecnici scuole di serie B. Sentire genitori che si vergognano del figlio che fa la scuola tecnica, che io ritengo essere il futuro del Paese, per me è causa di sconforto nei confronti della nostra Italia. La seconda causa è la scarsità di analisi e di attenzione su questo fenomeno. La terza causa riguarda lo stato dell’istruzione tecnica superiore, un problema irrisolto, dove l’università ha fortemente contribuito a soffocare l’autonomia di un percorso di formazione superiore stabile e di sistema, da affiancare ai percorsi universitari, così come è stato fatto in tutti i paesi evoluti, a partire dalla Germania”.

Sempre Prodi, nel 2016, affermava che gli istituti tecnici superiori avevano un numero di iscritti molto basso e che il primo obiettivo dovesse essere quello di moltiplicarlo per venti, aggiungendo che il filone tecnologico applicato era praticamente inesistente nella allora istruzione terziaria.

Se oggi i numeri dei tecnici mancanti sono 140 mila all’anno, di cui circa 50 mila nei settori del manufacturing più importante, poco è stato fatto da allora.

Poi il professore indicava che per colmare queste lacune occorresse lavorare molto, facendo comprendere che il problema era molto complesso e non certo di facile soluzione e indicava che occorresse innanzitutto far capire il problema al mondo politico, perché il nostro Parlamento era lontano mille miglia da questi problemi e quando alcuni specialisti ne parlavano, venivano ritenuti difensori di cose che interessavano a pochi.

A quel punto Prodi chiudeva il suo intervento dicendo: “O noi rendiamo chiaro che l’istruzione tecnica applicata è la condizione della sopravvivenza della struttura produttiva italiana o la nostra industria è destinata a scomparire”

Dall’analisi del prof. Prodi cosa possiamo dedurre?

Che quanto previsto da Prodi e da pochi altri nel 2016, si sta avverando.

Lei si sente di appartenere alla categoria citata “dei pochi altri”?

L'INTERVENTO DI RICCIARDELLI: SCUOLA E I TROPPI GIOVANI INSODDISFATTI DEL LAVORO | Lecco News - Notizie dell'ultima ora di Lecco, lago di Como, Resegone, Valsassina, Brianza. Eventi, trafficoBeh, io non sono nessuno, mi porto solo con me il mio vissuto professionale di quaranta anni, speso anche su questi temi, di cui me ne sono occupato in diverse parti del mondo. Però confermo, per quel che può contare, che faccio parte della categoria di “quei pochi”.

È infatti da tempo che scrivo che l’istruzione tecnica è una leva importantissima per il rilancio del nostro Paese, ma finora nessuno se ne è occupato, anche per le ragioni citate.

Quindi, o si rilancia l’istruzione tecnica, generando innanzitutto una forte attrattività verso questo settore scolastico, perché abbiamo bisogno di tanti iscritti, o con l’aggravamento del crollo demografico, le scuole tecniche saranno le prime a svuotarsi.

Non servono nuovi istituti tecnici se poi non abbiamo gli iscritti, che sono in continuo calo.

Il primo obiettivo, secondo me, potrebbe essere quello di riportare la percentuale degli iscritti agli istituti tecnici, oggi dal poco più del 30%, al 50%, ovviamente a scapito delle scelte liceali, e tutto ciò non genererebbe effetti particolarmente negativi.

Ma per raggiungere questo primo obiettivo, bisogna attivare un forte rilancio dell’istruzione tecnica, rendendo l’offerta formativa dell’istruzione tecnica fortemente attrattiva, per studenti, loro famiglie e per tutti gli stakeholder diretti e indiretti.

È la prima cosa di cui occuparsi.

Ma perché nessuno se ne è occupato finora e cosa bisognerebbe fare per occuparsene, visto che lei ne scrive spesso?

Lo ha scritto Prodi. Chi deve decidere non conosce il problema, per cui gli interventi che si fanno sono solo di manutenzione dell’esistente.

Rendere attrattiva l’istruzione tecnica non è solo una operazione di maquillage, di miglior comunicazione, di miglior orientamento, di piccoli interventi di manutenzione dell’esistente e quindi solo un’operazione di facciata. Va rinnovata tutta l’offerta formativa, nei contenuti, nei metodi e nell’organizzazione. Va cambiato l’approccio da scuola teaching center a scuola student center.

Va fatto invece un progetto rivoluzionario di turnaround, che significa di totale rivoluzione organizzativa, di contenuti, di metodi e tanto altro ancora, per un nuovo posizionamento nella società.

L’istruzione tecnica deve diventare non solo l’eccellenza del nostro sistema scolastico, ma essendo l’Italia il secondo paese manifatturiero in Europa dopo la Germania, deve diventare anche l’eccellenza del sistema scolastico europeo.

Questa è la sfida da perseguire.

E come si può realizzare una simile iniziativa?

Visto che i nodi stanno venendo al pettine, occorre creare una forte sensibilizzazione nel Paese, per arrivare agli Stati Generali per il rilancio dell’Istruzione tecnica, da costruire secondo il format degli eventi di Cernobbio, dove il focus, anziché essere sull’economia, deve essere centrato sul rilancio dell’Istruzione tecnica, nella sua complessità, quale leva strategica per una crescita economica sostenibile e per una crescita occupazionale sostenibile e non precaria.

Al tavolo degli Stati generali, con lo scopo di inquadrare il problema e di indicare gli obiettivi e le strategie per raggiungerli, ci devono essere seduti tutti gli esperti di economia, in particolare del settore industriale, gli esperti di employability (non è un caso che non uso il termine mondo del lavoro), gli esperti di education for employability (E4E) e gli esperti dell’istruzione e della formazione.

E poi vanno conosciute e utilizzate le “grammatiche” giuste per affrontare questi argomenti.

Mi faccia capire come si può rendere attrattiva l’istruzione tecnica agli studenti e alle loro famiglie?

Istruzione tecnica - www.comprensivoaradeo.edu.itLa riposta richiederebbe molti approfondimenti che finora non sono stati ancora fatti.

Mi limito allora ad alcune considerazioni da prendere un po’ nella forma del brainstorming.

Innanzitutto, l’istruzione tecnica attuale dovrebbe essere sottoposta a un progetto rivoluzionario di turnaround e quindi rivista nella sua complessità, coerentemente con il bisogno di saperi, di competenze e di comportamenti di cui necessitano i profili professionali del presente e del futuro, che sono articolati sui soliti tre livelli: low, medium e high.

Per intenderci il livello medium corrisponde al diploma quinquennale degli istituti tecnici e il livello high potrebbe corrispondere al livello biennale degli ITS.

Tutta l’offerta di istruzione tecnica andrebbe poi concentrata in un unico istituto, a partire dagli istituti tecnici più all’avanguardia.

Le famiglie e gli studenti dovrebbero infatti trovare, in un unico ambiente, l’offerta formativa complessiva, che accompagna il discente fino a un diploma di formazione superiore che, in ambito industriale, si deve chiamare necessariamente diploma in ingegneria, pur secondo diverse curvature o specializzazioni, riferite ai macro-processi aziendali.

Ciò significa intervenire sugli ITS che devono essere assolutamente e significativamente incrementati, ma “messi definitivamente a sistema”, con la strutturazione di un numero di profili professionali, a larga banda, in grado di rappresentare le famiglie delle posizioni chiave nei singoli settori economici.

Poi, in parallelo all’istruzione tecnica superiore per l’acquisizione del diploma in ingegneria, ci dovrebbero essere altri percorsi professionalizzanti di specializzazione, più brevi, e progettati e costruiti su specifiche necessità locali, settoriali o temporali.

È paradossale che la nostra istruzione tecnica superiore abbia oggi una miriade di titoli professionali, tra l’altro non normati, talvolta lasciati solo alle fantasie di chi deve confezionare il corso, che non si ricollegano ai criteri di definizione dei profili professionali delle organizzazioni. Insomma, si tratta spesso di denominazioni costruite a partire dai contenuti, messi in evidenza per questioni di marketing e non per posizioni organizzativa da ricoprire. Tutta questa babele di diplomi rende difficoltosa la catalogazione e il censimento dei mestieri e quindi anche la misurazione dei divari mancanti.

Gli ITS, così ripensati e gli ulteriori percorsi professionalizzanti, brevi o meno brevi, devono assolutamente essere incardinati nelle istituzioni attuali, a partire da quegli istituti tecnici che sono già pronti e adeguati a provvedervi.

Poi è necessaria una organizzazione formativa adeguata, con un forte presidio di competenze, da mettere in campo con il coinvolgimento di aziende di consulenza e di formazione e di business school e industrial management school  di grande competenza e già attive e presenti sui territori. Queste ultime conoscono già alla perfezione le necessità delle aziende del nostro sistema economico e il loro portfolio di offerta è già rappresentativo dei bisogni del sistema economico, senza ulteriore analisi dei bisogni, e può ben integrarsi con l’offerta e le attività dell’istituzione pubblica che devono essere propedeutiche e integrative alla successiva parte di professionalizzazione.

È un salto quantico che richiede una grande conoscenza del sistema delle tre E, affiancata da una conseguente esperienza di progettazione formativa. A un problema complesso si deve rispondere con delle soluzioni adeguate.

Quali sarebbero gli effetti?

Innanzitutto, se l’istruzione tecnica superiore, opportunamente dimensionata e accompagnati con ulteriori percorsi di professionalizzazione, fosse incardinata negli istituti tecnici, a partire da quelli di maggior prestigio, l’istruzione tecnica ne avrebbe un immediato beneficio, anche solo da un punto di vista dell’immagine.

Si configurerebbe così un sistema di “poli formativi del settore industriale” di medium e high technical education sul modello dei paesi più avanzati. Ovviamente l’offerta formativa attuale andrebbe ampliata e non limitata alle parti delle tecnologie, ma estesa ai settori complementari del marketing, delle vendite, dell’amministrazione, controllo di gestione e finanza, dell’export, delle aziende che producono e vendono beni industriali.

Per meglio capirci il sales manager di componenti e sistemi industriali, che deve possedere due macro-competenze, una nell’ambito delle tecnologie e loro applicazione e l’altra nell’ambito della vendita di un bene industriale, dovrebbe frequentare un percorso di questa nuova istruzione tecnica. Così come il tecnico industriale che si deve occupare della vendita o del post-vendita all’estero, ha bisogno di una specifica cultura e di specifiche competenze che attengono al mondo dell’export.

La ricchezza dell’offerta formativa di una nuova istruzione tecnica aiuterebbe a rimuovere l’immaginario collettivo che le professioni tecniche sono mestieri, sporchi, pesanti e scarsamente remunerati.

La realtà è ben diversa, anche se resistono, e probabilmente per poco, delle sacche dove il mestiere del tecnico si avvicina ancora allo stereotipo del passato.

Addirittura, si dovrebbe ampliare l’offerta formativa con percorsi finalizzati all’imprenditorialità e all’autoimprenditorialità.

Ma tutto deve essere concentrato in un’unica istituzione, sia per l’ottimizzazione delle risorse e della logistica anche dei discenti, che per l’affermazione di una immagine più efficace, di cui ne beneficerebbero tutti.

Insomma, c’è da lavorarci sopra parecchio e non lo si può fare usando gli slogan o con operazioni di manutenzione dell’esistente.

Ma tornando alla mancanza di giovani e al calo demografico, quali potenziali discenti si potrebbero indirizzare in queste nuove scuole, fatta la riforma dell’istruzione tecnica?

Innanzitutto, serve che ci sia un incremento della scelta dei “nuovi istituti” a scapito ovviamente dei licei.

Ma come ho già detto non si genererebbe un disvalore; servirebbe ulteriore tempo e spazio per argomentarlo.

Poi, soprattutto, per recuperare iscritti per l’istruzione superiore ed altri percorsi di professionalizzazione, bisogna assolutamente attingere a quella che chiamo l’area di parcheggio dell’università. È il mondo dei tanti iscritti all’università che non vanno né avanti né indietro.

È quell’area di parcheggio universitario, dove tanti studenti, non accompagnati da un serio percorso di orientamento, dopo un po’ si accorgono che la scelta del cammino intrapreso non corrisponde alle loro attese e non trovandosi una offerta alternativa, restano talvolta, e per tanto tempo, nel limbo del parcheggio, in attesa di qualche opportunità diversa, incrementando così il “disvalore aggiunto”.

Poi faccio un’ultima osservazione da collocarsi nell’area dei paradossi.

Se è vero che mancano 140 mila tecnici e abbiano più di tre milioni di NEET, la cifra del personale mancante è meno del 5% dei NEET. Ora, per la legge dei grandi numeri possiamo chiederci: possibile che tra più di tre milioni di NEET non si possano trovare 140 mila persone disponibili da indirizzare in percorsi formativi professionalizzanti seri, per colmare anche in piccola parte il problema e ridurre lo stato febbrile del mismatch?

Ma ci sono le persone e le competenze per affrontare questa rivoluzione copernicana?

Suggerirei di porre la domanda in modo un po’ diverso.

Siamo consapevoli di questo problema e delle sue implicazioni? Sappiamo il rischio che stanno correndo le nostre aziende e quindi tutti noi?

Allora dobbiamo solo chiederci se siamo disponibili ad occuparci della soluzione del problema. Già una risposta positiva sarebbe un ottimo punto di partenza. Poi, con pazienza, impegno e tante altre virtù che sappiamo trovare nelle soluzioni complesse, saremo anche in grado di fare la rivoluzione copernicana.

Come vogliamo concludere?

Non sono i soldi che mancano, è più probabile che siano troppi e mal spesi.

Serve invece capire molto bene il problema e non è una cosa da poco, ma ce la si può fare. E poi agire di conseguenza, incominciando ad aggregare e a “mettere a sistema” le cose positive.

Bisogna però partire dagli Stati Generali per il rilancio dell’istruzione tecnica e in fretta, perché potrebbe essere già troppo tardi.

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Fin qui la nostra (lunghissima, inevitabilmente visti i temi trattati) intervista.
La speranza – ma verrebbe da dire l’urgenza – è che il dibattito originato da questo e altri precedenti articoli dell’appassionato e competente ing. Ricciardelli possa sfociare in atti concreti.
Per scongiurare la sindrome da rassegnazione e quella moda invalsa nel mondo dell’amministrazione e della politica di autocelebrarsi, spesso a sproposito. Frasi su politiche attive che fanno riscontrare molte risposte sulla diminuzione del mismatch tra domanda e offerta nel mondo del lavoro hanno bisogno a loro volta di riscontri: quali politiche? Quali risposte? Come sarebbe diminuito il famoso mismatch?
Su questo e altro ci auguriamo che il grande lavoro dell’esperto da noi interpellato, la sua esperienza e le tante proposte (quelle sì, costruttive) lanciate diano vita a un confronto finalmente scevro da luoghi comuni e parole vuote. Perché di tutto ha bisogno il nostro Paese, men che di frasi scontate e progetti vacui.

Sandro Terrani

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L’INTERVISTATO/Biografia

Valerio Ricciardelli - Presidente e AD Festo CTEValerio Ricciardelli, oggi 68 anni, lo studioso si diploma perito elettronico nel 1973 presso l’Istituto Tecnico Feltrinelli di Milano. Si laurea in ingegneria elettronica, indirizzo sistemi automatici al Politecnico di Milano. Le prime esperienze lavorative sono nel campo della progettazione dei sistemi di controllo di tensione degli alternatori delle centrali termiche, quando l’Italia era ancora un leader mondiale nella costruzione delle centrali elettriche.

Nello stesso periodo, per nove anni, è anche docente di elettronica industriale presso l’Istituto tecnico salesiano serale di Sesto S. Giovanni, dove anche in quella occasione deve mediare tra i programmi ministeriali obsoleti e le impellenti esigenze imposte dall’evoluzione delle tecnologie. Contemporaneamente inizia la sua attività presso la società Festo, la filiale italiana, di un importante gruppo tedesco, leader mondiale nella componentistica per l’automazione industriale e nel campo della didattica per le professioni tecniche, nonché partner del governo tedesco per la costruzione del cosiddetto modello duale della formazione professionale.

Successivamente diventa direttore generale e amministratore delegato di una nuova società del gruppo, la Festo CTE (Consulting-TrainingEducation) che comprende anche una delle più importanti scuole di Industrial management in Italia. Dirige una attività prevalentemente rivolta alla consulenza aziendale e alla formazione delle professioni tecniche delle aziende del settore manifatturiero, contribuendo alla creazione di una nuova cultura industriale a seguito degli importanti cambiamenti organizzativi indotti dalla globalizzazione.

A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, ha travasato l’esperienza raccolta dall’operare nei più diversificati settori industriali nelle prime iniziative di formazione applicata superiore (formazione post-diploma), anche promuovendo i primi progetti trasnazionali, introducendo i concetti di certificazione delle competenze secondo standard internazionali. 

Ha terminato la sua attività professionale nella posizione di Vice President del gruppo internazionale, per il settore della Global Education, occupandosi prevalentemente della consulenza di grossi progetti internazionali, rivolti anche a governi di paesi in via di sviluppo, per la progettazione e realizzazione di sistemi TVET,  intendendo con questo termine tutte le forme e livelli di istruzione e formazione che forniscono conoscenze e abilità relative alle occupazioni in vari settori della vita economica e sociale attraverso metodi di apprendimento formale e non formale in contesti di apprendimento sia in ambito scolastico che lavorativo.

Ha partecipato a varie iniziative di carattere internazionale, tra cui istituzioni afferenti alla Banca Mondiale, a Unesco, Fondazione Adenauer, come esperto di politiche di Education finalizzate all’Employability (E4E). Si è occupato anche di ROI on Education, lo strumento per misurare che gli investimenti nell’istruzione e formazione non siano debito cattivo. È stato relatore in diversi convegni internazionali e nazionali e in questi ultimi trattando prevalentemente l’argomento: una nuova formazione tecnica per il rilancio del Paese. È maestro del lavoro su nomina del Presidente della Repubblica Napolitano. Data, anche la conoscenza diretta dei piccoli paesi
di montagna, a rischio chiusura delle scuole elementari, ha promosso e coordinato un convegno regionale in Lombardia dal titolo: Piccole Scuole per fare grande un Paese. È stato presidente di un consiglio di Istituto, e si è
occupato spesso di iniziative di orientamento al lavoro. L’esperienza e la competenza acquisita, derivante anche
dall’organizzazione e gestione di sistemi complessi, racchiude una visione chiara su come l’istruzione e la formazione tecnica, nei suoi tre livelli: low, medium, high, possano essere per il nostro Paese una leva strategica per fare crescita economica e sociale immediata e sostenibile e prevenzione alla migrazione economica.

Per tale ragione, quella che lui chiama la Technical Education e in generale l’Education non può più essere vista in modo verticale, senza nessun legame con l’Economy e l’Employability.

Pertanto, secondo lui, “la visione si deve centrare sulle cosiddette tre E: Education- Economy-Employability, che significa riprogettare il sistema scolastico, a partire dall’istruzione tecnica, secondo un approccio sistemico, dove ogni scelta didattica o scolastica è coerente con il sistema economico globale e con gli effetti occupazionali.