Rileviamo la dichiarazione del Presidente interprovinciale di Como e Lecco di Coldiretti, Fortunato Trezzi, circa le sue preoccupazioni per la presenza di cinghiali sui territori provinciali.
Riteniamo certo veritiero affermare che questa specie selvatica abbia esteso l’areale della sua distribuzione anche nel nostro territorio, ciò è innegabile. Ma contestiamo radicalmente l’approccio che la sua Associazione propone come soluzione del problema.
Il cinghiale è ormai specie radicata ed è entrato a far parte della nostra fauna anche grazie ad una politica di gestione delle popolazioni di tipo utilitaristico, che comparti quali quelli del mondo venatorio hanno attuato e stanno portando avanti da oltre un decennio, affiancati da decisioni politiche assai discutibili.
Quello che oggi viene definito uno squilibro ambientale è in realtà il risultato di ben precise scelte gestionali che hanno trasformato il cinghiale in una specie selvatica su cui assicurare ed impostare quella continuità di prelievo venatorio necessaria a ridare vigore a un comparto, quello appunto della caccia, che ha mostrato un drastico calo nel numero dei praticanti sin dai primi anni 2000. Gli stessi piani di prelievo approvati dagli uffici deputati alla gestione faunistica non hanno mai avuto come fine quello di portare alla estinzione locale del cinghiale ma, anzi, quello di rendere la sua presenza quanto più redditizia in termini di numero e di tipologia di capi prelevabili.
In pratica è stata data una precisa risposta ad una domanda di mercato. Ne sono prova i dati statistici relativi alle classi di età degli esemplari, che ancora oggi vengono preferite dai cacciatori nella scelta del capo da abbattere. Se a questa esplicita strategia aggiungiamo le caratteristiche biologiche della specie in termini di frugalità e di strategia riproduttiva dell’animale, il risultato è quello che possiamo osservare oggi sotto i nostri occhi.
A riprova di questa distorsione nella gestione del cinghiale, in cui si predilige il mantenimento dello stock piuttosto che la sua eliminazione, va letta anche la notizia che una amministrazione comunale locale è dovuta arrivare ad elargire un incentivo economico ai cacciatori pur di condizionarli nelle loro scelte di abbattimento di cinghiali verso capi giovani e piccoli invece che adulti, per ottenere, alla fine, una riduzione più efficace della popolazione presente sul suo territorio.
Il prelievo ormai è diffusamente guidato più dalla ricerca del miglior trofeo o del capo più grosso, piuttosto che verso giovani riproduttori, con il risultato che la popolazione non decresce ma, anzi, si espande.
Sarebbe auspicabile che si cambiasse una volta per tutte la rotta nella gestione di questa specie attraverso serie campagne di contenimento, basate su dati scientifici certi, là dove la presenza è veramente problematica, finendola di nascondersi dietro inefficaci azioni dettate solo da opportunismo. Ancora più significativo per dimostrare un cambiamento di mentalità e il conseguimento di maturità, sarebbe poter vedere riconosciuto da categorie, come quelle degli agricoltori ed allevatori, il ruolo che il lupo, animale in grado di dominare anche in ambiti territoriali promiscui, possono avere per regolare la presenza del cinghiale in Italia, piuttosto che lanciare falsi allarmismi.
Riguardo infine al rischio sanitario che il cinghiale rappresenta quale vettore per la diffusione dei malattie infettive, ci preme ricordare che in Italia sono allevati in modo intensivo circa 9.500.000 maiali all’interno di allevamenti in cui il controllo sanitario è assicurato soltanto grazie ad un impiego, altrettanto intensivo, di antibiotici e farmaci ad uso veterinario. Lo abbiamo visto e compreso recentemente che sono proprio le condizioni di allevamento degli animali a costituire il vero problema su cui si incardina il rischio sanitario, e a seguire economico, per le relative categorie produttive.
Con gli attuali sistemi di allevamento sono a rischio la salute degli animali e dell’uomo, la resistenza degli ecosistemi, la capacità di recupero in caso di danni ambientali e, di conseguenza, derivano sempre maggiori ripercussione economiche in caso di epidemie.
Per ridimensionare efficacemente questo rischio, basterebbe ridurre il consumo di carne e tutti, sul nostro pianeta, saremmo molto più in salute.
WWF Lecco