ESINO – L’8 marzo sarà il sessantesimo anniversario della morte del grande parroco di Esino, don Giovanni Battista Rocca, da ricordare per le sue tante benemerenze. Nel frattempo, siamo ormai prossimi anche all’ottantesimo Anniversario della Liberazione, un periodo storico in cui don Rocca, con tanti altri sacerdoti, religiosi e religiose appartenenti alla Chiesa Milanese guidata dal Cardinale Schuster, fu un importante protagonista.

Lo ricorda in questo scritto Valerio Ricciardelli, storico locale e suo biografo e anche nostro columnist per le politiche scolastiche e del lavoro. Ricciardelli ci anticipa anche, che sta lavorando a una prossima pubblicazione sul ruolo della Chiesa Ambrosiana nel periodo 1943-1945, attraverso la rilettura e gli approfondimenti del fondo archivistico poco conosciuto del Cardinal Schuster: “gli ultimi tempi di un regime”.

In ricordo di
Don Giovanni Battista Rocca
Parroco di Esino Lario dal 1927 al 1965
nel sessantesimo della sua morte e nell’ottantesimo della Liberazione

Don Rocca mancò l’8 marzo 1965, dopo 38 anni di apostolato in terra esinese e di lui don Piero Oriani, suo fedele collaboratore scrisse: “diede cibo spirituale e materiale al suo gregge e direzione di governo”.

Il parroco esinese è ormai ricordato solo dagli anziani per i famosi arazzi, per la passione per la botanica e per essere stato partigiano; ma don Rocca non è stato solo uno dei bravi preti ingegnosi, imprenditori – un po’ umanisti, un po’ botanici – e poi coraggiosi, nel periodo della Resistenza.

Don Rocca è stato un grande prete della Chiesa universale, e un grande prete della Chiesa ambrosiana, geniale presenza nella società del suo tempo, sapiente e competente in una moltitudine di discipline.

La sua visione delle cose del mondo e della società in cui viveva, i valori e i principi da cui si faceva guidare, la profondità delle sue idee e dei progetti che ne scaturivano, le sue intuizioni nell’anticipare gli scenari futuri della storia avrebbero una formidabile attualità anche ai giorni nostri.

Don Rocca ha titolo e dignità per collocarsi nella categoria dei grandi preti che sono a noi più familiari, come don Sturzo, don Mazzolari, don Milani, per citarne alcuni, ma anche altri sacerdoti della Chiesa ambrosiana meno conosciuti al grande pubblico. Si tratta di figure che, anche al di fuori dell’ambito strettamente ecclesiastico, hanno lasciato un segno che travalica la loro esperienza concreta, diventando – con la loro dedizione di uomini e sacerdoti – punti di riferimento per i valori e le opere che hanno saputo trasmettere all’intera società.
Molti di loro, anche nel nostro territorio, furono poi protagonisti durante la Resistenza per salvare vite umane perseguitate dalla ferocia nazifascista e dalle conseguenti ritorsioni di chi stava dall’altra parte.

Nel suo cammino sacerdotale, don Rocca aveva capito subito che la dimensione sociale dell’uomo agiva sui comportamenti della vita cristiana: questi stessi comportamenti, in altre parole, erano condizionati dalle dimensioni economiche della società e delle comunità di quel tempo, e inoltre dai mutamenti innescati dai conflitti politici, militari, sociali ed economici che portarono a un regime dittatoriale sfociato in una terribile guerra con inimmaginabili barbarie.

La dignità umana, per lui era sacra e veniva prima di ogni altra cosa: la promuoveva e la favoriva in ogni modo, sottolineando il proprio impegno con un’espressione ricorrente: «in fin dei conti il mio mestiere è di occuparmi di carità cristiana».

Con quella espressione, che forse noi oggi interpretiamo in modo riduttivo, don Rocca aveva già anticipato quanto scrisse nel 1971 Paolo VI nella sua enciclica Octogesima adveniens, nella quale affermava che la politica è la forma più alta ed esigente della carità.
Considerando che l’Octogesima adveniens commemorava l’ottantesimo anniversario della Rerum Novarum, sulla quale don Rocca si era formato e avrebbe costruito il suo programma di pastorali innovative, possiamo dire che l’espressione ricorrente da lui usata, cioè di occuparsi di carità cristiana ha un significato più ampio, e vuole proprio dire occuparsi di politica, quella che è pieno servizio del bene comune.

Il genio di don Rocca aveva le sue basi in un pensiero speculativo. Aveva compreso che il suo gregge, ovunque gli fosse affidato, non poteva alimentarsi solamente di cibo spirituale, ma aveva bisogno anche di cibo materiale e, forse ancora maggiormente nei tempi della “tormenta”, di direzione di governo. E lui stava in mezzo al “suo gregge”, come indicherebbe papa Francesco, e se la casciò tanto, disobbedendo innanzitutto ai consigli del cardinal Tosi che destinandolo a Esino in una curapia molto difficile, ebbe a dirgli: « studia i fior e i sass e cascetale no».

Dopo l’ordinazione sacerdotale, avrebbe voluto entrare nel Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME). Si sarebbe trovato così a distribuire cibo materiale e cibo spirituale, con direzione di governo, in paesi lontani, in mezzo a uomini di razze diverse, ma per lui tutti fratelli e figli di Dio.
La sorte, per ragioni di salute, gli riservò un destino diverso: fu missionario nelle sue terre, in un periodo storico in cui era imperante il razzismo scientifico, dove si scontrò aspramente con l’ideologia di chi invece sosteneva il primato della razza italiana, tale da prefigurare un diverso valore di appartenenza in termini di intelligenza e ancor peggio di dignità.
Non dimenticò le missioni dei poveri, ed eresse a sue spese la casa missionaria del PIME di Villa Rogo a Esino, luogo di accoglienza e di studio di tanti seminaristi, e di riposo di tanti missionari tornati dalle terre di missione. Andò invece in missione un giovane sacerdote di Erba, che lui aiutò molto, grande protagonista della resistenza cattolica, Padre Aristide Pirovano, poi vescovo e Superiore Generale del PIME.

Non va nemmeno dimenticato che Giovanni Battista era nipote di don Ambrogio Rocca, famoso parroco di Senago, grande autorità morale di quel borgo, oppositore delle autorità fasciste del luogo, stimato dalla Curia e dall’Arcivescovo.
Zio e nipote, molto legati tra loro, furono i benefattori della nuova chiesa parrocchiale di San Giorgio di Rovagnate e del seminario di Venegono. Oggi riposano insieme nel cimitero di Senago, nella cappella fatta costruire da don Ambrogio, dov’è sepolto anche don Emilio Rocca, morto giovane coadiutore, e fratello di don Ambrogio.

Interprete della dottrina sociale della Chiesa
Don Rocca, da giovane coadiutore a Malgrate, dopo l’abrogazione del non expedit di Benedetto XV, fu tra i fondatori del Partito Popolare di don Sturzo a Lecco. Tesse anche una profonda collaborazione con Achille Grandi.
La stima di Grandi, uomo coraggioso che aveva fatto parte dei parlamentari aventiniani dopo l’omicidio Matteotti, ci conferma che anche in don Rocca agiva un’istintiva contrapposizione al regime fascista, che egli manifestava con la pragmatica applicazione, nel suo ministero sacerdotale, della dottrina sociale della Chiesa, così come illustrata dalla Rerum Novarum di Leone XIII.
La collaborazione con Grandi si realizzò con la scrittura da parte di don Rocca di un “libro bianco” intitolato L’agitazione dei contadini milanesi e comaschi.

Questo libro, scritto nel 1921, è un capolavoro di analisi, di intuizioni e di suggerimenti pratici per risolvere una situazione conflittuale che ormai durava da anni tra i contadini e i proprietari della terra.
L’onorevole Achille Grandi, presidente della Federazione delle leghe dei contadini, elogiò ampiamente il lavoro pubblicato, definendo don Rocca, nella prefazione, un «giovane e valoroso sacerdote», e ne fece buon uso promuovendo con un intenso discorso parlamentare la riforma agraria, di cui c’era assoluta necessità.
Nella prefazione del testo, don Rocca chiariva le motivazioni del suo lavoro. Lo definiva un «libro di battaglie e di idee», che per questo divenne la base di una proposta di legge che l’allora ministro dell’agricoltura presentò in Parlamento per ristabilire l’equità dei contratti agrari.

L’avversione al regime fascista di don Rocca non si manifestò subito. Nella fase iniziale, fu prudente e accolse positivamente alcune riforme, incidenti sul piano economico, e mantenne importanti relazioni con i rappresentanti delle istituzioni che lo avevano visto protagonista attivo negli anni in cui era stato professore della cattedra ambulante di agricoltura. Fu anche nominato Cavaliere della Corona.

Dopo queste sue prime esperienze sociali fu destinato a Esino, una curapia con molte difficoltà che si trascinavano da tempo e dove occorreva mettere mano.
Per risolverle non era sufficiente nominare un bravo sacerdote, che fosse solo uomo di Dio: serviva affiancare all’opera spirituale (cibo spirituale) anche un supporto concreto (cibo materiale); serviva la capacità di imprimere alla comunità, qualora e laddove necessario, un indirizzo differente di governo (direzione di governo); serviva un uomo di Dio, con grandi competenze, forte nella visione e nelle decisioni: che sintetizzava tutto il suo agire nella formula «occuparsi della carità cristiana». Aveva ben chiaro l’importanza di questa virtù teologale, ricordata nella lettera di Paolo ai Corinzi.

La pastorale della carità cristiana
Utilizzava questa frase soprattutto quando si trovava in situazioni complesse, per sdrammatizzare: «in fondo faccio il prete e mi devo occupare solo di carità cristiana».


Quella frase gli uscì di bocca, con finezza gesuitica, anche nel momento più impegnativo della sua esistenza, quando prossimo ad essere portato davanti al plotone di esecuzione, nelle vesti di partigiano confesso, riuscì a scampare alla morte dicendo di avere salvato la vita ai familiari di Mussolini, e mostrando a tal fine una lettera di ringraziamento della segreteria particolare del Duce; in quel drammatico frangente proferì infatti: «ma perché mi volete fucilare, in fondo il mio mestiere è di occuparmi di carità cristiana».
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Vale la pena di addentrarsi in questo episodio, per fare capire meglio quanto don Rocca fosse sacerdote caritatevole e al contempo uomo capace di realpolitik.

Nell’estate del 1944 erano nascosti a Esino, presso la colonia del PIME, che ospitava gli sfollati dalla città, la nuora di Mussolini, Orsola Buvoli, moglie di Vittorio, con i figli Guido e Adria affetti da una grave pertosse. Erano arrivati lassù accompagnati da Monzeglio, il famoso calciatore, sotto la protezione di don Rocca.

Comuni amici e conoscenti si fecero carico di proteggere quelle persone da un arresto che avrebbe avuto drammatiche conseguenze: potevano diventare facili ostaggi, ma don Rocca mostrò tutta la sua autorevolezza per la loro salvaguardia.
Convocò, infatti, il comandante dei partigiani di zona Poletti, lo informò della vicenda, dicendo che ne era a conoscenza solo il Gilera, l’industriale delle moto, e gli chiese di tenere lontani i partigiani dalla zona e di farsi carico della tutela degli ospiti fino alla fine della loro permanenza in paese.

Poletti si mostrò all’altezza di quella delicatissima situazione. Informò immediatamente della richiesta del parroco il comandante locale dei partigiani e, congiuntamente, disposero per l’incolumità della signora Orsola e dei bambini.
Nessuno seppe di questo soggiorno a Esino fino a quando gli ospiti, dopo due mesi, lasciarono il paese nella più assoluta tranquillità.
È sorprendente come don Rocca riuscì a garantire tramite i partigiani l’incolumità della nuora e dei nipoti di Mussolini, ed è commovente, al tempo stesso, come descrisse questa vicenda in una lettera al cardinal Schuster, tempo dopo: «si era trattato, in fin dei conti, di fare della carità cristiana; e anche i partigiani, tutto sommato, erano da considerare buoni cristiani».
Questo episodio eleva don Rocca ben oltre il ruolo di partigiano antifascista, per collocarlo tra i “resistenti”, cioè tra coloro che non erano stati solo “anti”, per esser contro. La sua vera scelta era “per”: una alternativa totale a favore di una società completamente diversa, occupandosi di ciò che è umano e combattendo ciò che non era umano. Egli, nel suo linguaggio la chiamava «carità cristiana». Era la sua visione della Resistenza.

Questa capacità di guardare oltre l’orizzonte immediato di quei pur tragici momenti conferma la permanente pastorale della carità in quest’umile e grande prete, per il quale ogni gesto – pur richiesto di coraggio, decisione e sacrificio – nel segreto della coscienza era comunque un atto di solidarietà e di carità verso un fratello sofferente. E ciò si vide anche dopo il 25 aprile 1945, quando don Rocca non esitò ad aiutare gli altri: i nuovi ricercati, i perseguitati, i braccati.

Fine intellettuale
Non dobbiamo confinare don Rocca solo nel campo dell’applicazione concreta della dottrina sociale della Chiesa. Fu anche un fine intellettuale, che sapeva trarre spunto dai grandi pensatori della sua epoca e indirizzare verso le giuste fonti di ispirazione anche coloro che dovevano operare con lui per il bene della comunità.
Osserviamo più da vicino un caso illuminante di questa attitudine. Quando lo scultore Michele Vedani si accingeva a realizzare le nuove sculture della Via Crucis parrocchiale, chiese a don Rocca dove avrebbe potuto trarre ispirazione per l’opera.
Le mani dello scultore furono sicuramente guidate dall’emozione – adempiva infatti il desiderio della figlia Minuccia scomparsa da poco – ma furono ben consigliate da don Rocca, che per il grande Atto indicò all’artista il libro della vita di N.S. Gesù Cristo dell’abate Costantino Fouard, considerato allora il miglior testo sulla vita di Cristo.
Il Vedani lo lesse addirittura due volte, e a ragione don Rocca sottolineò che lo scultore era stato in grado di coglierne «il senso più composto del bello». Infatti, nell’eseguire l’opera non era sufficiente soddisfare il lato estetico per gli appassionati d’arte, o tenere in considerazione il luogo in cui le sculture si sarebbero dovute collocare: il parroco desiderava che fosse tenuto conto della dimensione trascendentale, «per guidare il turista credente a rivivere, con fede e nell’arte, la Passione del Cristo».

La direzione di governo
Dopo le tragedie della guerra indirizzò la sua comunità alla riconciliazione e alla ricostruzione morale e materiale. Lo fece con “direzione di governo”, grazie alla sua riconosciuta autorevolezza. Radunò la popolazione nel salone del teatro dell’Asilo, alla presenta di Celestino Ferrario e dispose la nomina di Bernardino Riva primo sindaco esinese della Liberazione, che aiutò molto il movimento partigiano.

Il signor Riva, proprietario all’epoca dell’omonimo villaggio, fu un imprenditore antifascista molto amico di don Rocca; per un certo periodo fu anche un confinato politico a Bibbiena, in Toscana. Ora di lui non c’è più nessun ricordo.
Poiché con l’avvento della Repubblica tutti i paesi erano in fermento per formare nuovi partiti politici, don Rocca scrisse al riguardo, al suo Arcivescovo: «per evitare nuove divisioni, a Esino ho vietato la costituzione di partiti: è sufficiente il partito di Dio».

Lo stesso don Piero dedicò un passo circostanziato al ruolo che don Rocca ebbe nel periodo della Resistenza a Esino, in una sua pubblicazione del 1952:

Ma l’esplosione dei giorni della liberazione sarebbe stata grave anche a Esino se non ci fosse stata l’opera calmieratrice e cristiana del Parroco che ripeteva e ripeteva: la vita è sacra a Dio. Così tenne nascosto in una sua villa un ricercato dai partigiani finché passarono i bollori; impedì l’arresto arbitrario di parecchie personalità non solo di Esino; ma soprattutto fece rientrare un ordine di fucilazione di fascisti (tra cui alcuni esinesi) che il Comando Partigiano di Mandello aveva decretato di compiere a Fiumelatte, sul posto dove alcuni mesi prima erano stati fucilati quattro partigiani.

Questi sono i fatti principali di quei tragici anni; in vari diari d’archivio è narrato tutto più particolarmente.
Va notato che in quegli anni, davanti a tedeschi, fascisti e partigiani era solo il Parroco sulla breccia a rappresentare il paese; tutti i facili critici di oggi s’erano ecclissati.

Quante preghiere, tridui, novene furono fatte in quegli anni, specialmente alla Grotta di Lourdes e alla Madonna Ausiliatrice nella chiesa del PIME di Villa Rogo. E dobbiamo riconoscenza alla Madonna che ci ha veramente aiutati.

La Resistenza, per don Rocca, fu occuparsi della dignità umana, non tradire l’uomo da qualsiasi parte fosse schierato; la Resistenza per don Rocca, come ebbe a dire anni dopo il cardinal Martini, fu «la scelta dell’umano contro il disumano», quale presupposto di ogni ideologia e di ogni etica personale.

Don Primo Mazzolari scrisse: «I veri valori della Resistenza sono contenuti e difesi da questa formula evangelica: la verità non si difende con la menzogna, la giustizia con l’iniquità, la libertà con la sopraffazione, la pace con la guerra». È come dire, per usare le parole di papa Francesco che «non abbiamo bisogno di muri e di reticolati, ma di ponti».

Il concetto di Resistenza di don Rocca era già ben espresso, da più di vent’anni, nel suo libro bianco: ed era una scelta di vita che non poteva verificarsi solo in un determinato tempo e in uno spazio contingente. Fu, infatti, per il nostro parroco l’applicazione quotidiana della dottrina sociale della chiesa che studiò, applicò e ne anticipò le sue evoluzioni.

Ecco perché occorre ricordarlo, tenendo viva la riflessione sul passato ma con lo sguardo sempre rivolto al presente e al futuro.

di Valerio Ricciardelli

studioso ed esperto
di cultura locale

 

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