ESINO LARIO – Come ogni anno si festeggia ad Esino Superiore la ricorrenza di S. Antonio Abate, molto partecipata che accompagna la celebrazione religiosa con il tradizionale incanto dei canestri e con la prelibatezza gastronomica dei famosi ravioli esinesi di S. Antonio con le loro variegate personalizzazioni rispetto la ricetta madre.

Il culto di S. Antonio a Esino, come in altre parti, ha origini lontane e della sua storia ne scrive ancora Valerio Ricciardelli, nostro columnist esperto in politiche scolastiche.

Il suo contributo originale è frutto anche di profonde e recenti ricerche sulle famiglie e sulla comunità di Esino Superiore con una prospettiva storiografica nuova che ha permesso di approfondire nuovi orizzonti sulle numerose emigrazioni economiche del passato verso Venezia ed altre località.

Esino Superiore. L’oratorio di S. Antonio Abate
e la sua Comunità – anteprima di una ricerca
di Valerio Ricciardelli

17 gennaio festa di S. Antonio Abate

La festa di S. Antonio Abate a Esino Superiore, tra l’altro una ricorrenza molto sentita, prima che rischi di essere definitivamente dispersa nella memoria merita di essere raccontata. Lo spunto mi viene ricordando quanto scrisse Franco Cardini, un famoso storico, che contro i pericoli della cancel culture, nei suoi effetti dell’oblio dei fatti del passato, solo la storia può purificare la nostra memoria e il nostro ricordo.

Questa fu anche una delle ragioni per cui scrissi, tempo fa, un piccolo volumetto dal titolo: L’oratorio di Sant’Antonio Abate in Esino Superiore e la sua Comunità. Lo feci per lasciare alcuni “frammenti di memoria storica per l’archivio” che il tempo potrebbe definitivamente cancellare.

Dimensione religiosa e laica

Riflettendo sulla ricorrenza della festa del 17 gennaio, partendo dai tempi moderni, la dimensione religiosa originaria è ormai offuscata da quella laica, certamente più conosciuta e il ritorno al racconto della dimensione storica potrebbe aiutare a non dimenticare.

La funzione religiosa dell’oratorio di S. Antonio – e quindi il culto del Santo e degli altri santi venerati – avevano due dimensioni. La prima di natura intercessoria, per essere protetti dalle malattie, dagli infortuni, anche degli animali, e dalle varie calamità naturali. La seconda di suffragio per i defunti, per ottenere da Dio la remissione della pena temporale loro inflitta in sconto dei peccati commessi durante la vita terrena.

La festa laica poggia invece sulla dimensione gastronomica dei gustosi ravioli di S. Antonio, con le loro diverse personalizzazioni attorno alla ricetta madre che, oltre a soddisfare i palati dei buongustai, sono anche veicolo di richiamo alla socializzazione di un passato lontano.

Era infatti tradizione che le genti di Esino Superiore, per la ricorrenza, ospitassero quelli di Esino Inferiore, così come gli amici delle terre vicine e la convivialità e socialità furono il legante che tenne assieme le comunità in tutte le loro decisioni e vicissitudini.

Fu nella ricorrenza del 1973, nel festoso e freddoloso pomeriggio di quel 17 gennaio seduti attorno al focolare nella casa del Peppino in piazza S. Antonio, che conversando con il parroco don Bruno Colombo alcuni capi famiglia di Esino discussero e decisero di rinnovare il concerto delle campane della chiesa parrocchiale e di rifondare il corpo musicale che da qualche anno aveva interrotto la sua attività. Piccoli ma efficaci esempi della storia della socialità di una comunità di cui si ha ancora traccia.

Applicando le grammatiche in uso agli storici, non mi azzardo a far risalire la dimensione gastronomica a lontane origini come qualcuno vorrebbe far credere, anche perché ci vorrebbero delle carte inoppugnabili che lo dimostrassero, ma che non ci sono. Negli scritti di prete Penna, il parroco Giò Maria Bertarini che corrispondeva nella seconda metà del Cinquecento con l’arcivescovo Carlo Borromeo, si ha evidenza che le feste religiose, tra cui quella di S. Antonio celebrata però il 14 febbraio, giorno presunto della consacrazione della chiesa, erano poco o niente osservate. Infatti, il dotto parroco del tempo, originario di Esino Superiore, indicava che tra i grandissimi abusi vi era quello che gli uomini in occasione delle feste, che a quell’epoca erano solo religiose, se ne andavano a Varenna e perdevano la messa e le prediche e se ne stavano all’osteria a crapular e giocare.

La festosità laica che accompagna quella religiosa, ma di cui non si ha evidenza della componente gastronomica ha origini più recenti, verosimilmente non prima dell’Ottocento. Abbiamo però indizio di una ricorrenza festosa, per la prima volta già nel 1662, in occasione però della istituzione della Cappellania Carganico e della inaugurazione e benedizione, con grande festa, della statua di S. Antonio da Padova che oggi ammiriamo in uno degli altari laterali della chiesa. Questo evento ci incuriosisce ad approfondire la dimensione storica, ben oltre quello che ci saremmo aspettati, ma ne dirò più avanti.

Tornando ai ravioli, il loro primo apparire anche in una competizione gastronomica è iniziato nel 1975 con la Pro Loco del tempo, a cui sono seguiti successivi eventi che hanno promosso e consolidato la prelibatezza del piatto, grazie alle diverse interpretazioni di tanti nostri bravi cuochi.

Oltre ai ravioli, la tradizione ci tramanda la benedizione degli animali, essendo S. Antonio Abate riconosciuto anche il loro protettore. Questa benedizione, a metà del secolo scorso, in una sua allargata interpretazione, fu successivamente estesa ai mezzi di trasporto, iniziando dalla prime corriere che giunsero in paese, per poi arrivare alle autovetture che essendo sempre più numerose non possono più essere tutte accolte sul piazzale Italia, luogo della somministrazione del “gesto pastorale”.

Non va nemmeno dimenticato che la chiesa di S. Antonio, alla fine della Prima guerra mondiale fosse diventata anche l’equivalente del sacrario dei caduti di Esino Superiore.

Infatti, in via del tutto eccezionale, venne concessa subito dopo la guerra e ancor prima dell’erezione del monumento ai caduti, l’autorizzazione dalla autorità ecclesiastiche per porre la lapide dei caduti di Esino Superiore sulla facciata della chiesa. Di conseguenza, fino alla fine degli anni 70 la commemorazione religiosa del 4 Novembre venne fatta nella chiesa di S. Antonio, dove al tradizionale concerto delle campane a martello per la festa del Santo, fu aggiunto anche il concerto per la ricorrenza laica dell’anniversario della Vittoria.

In epoche più recenti, per rendere più viva e partecipata la dimensione laica, si aggiunsero i giochi di sagra del paese e i fuochi d’artificio, espressioni festose ormai diventate comuni, forse pensate per rendere più felici i bambini.

Contemporaneamente è sopravvenuto il progressivo obblio della storia originaria della sua funzione religiosa.

L’incanto dei canestri

Introducendoci allora al percorso storico in cui vogliamo incamminarci, continua ancora e con un certo successo la tradizione dell’incanto dei canestri, di cui vale la pena raccontarne le origini che sono sicuramente antecedenti a quelle dei ravioli.

Questa pratica diffusa o comunque ripresa in molte sagre paesane, altro non è che l’offerta di beni in natura, molto spesso alla chiesa, per poi essere venduti direttamente alla popolazione nella forma del pubblico incanto, con un meccanismo che stabiliva automaticamente il prezzo in funzione della domanda di acquisto e quindi l’assegnazione al miglior offerente. E tutto ciò con lo scopo di monetizzare il valore di quei beni in natura e trasformarli in offerte per la chiesa.

Infatti, la chiesa fin da tempi lontani, si assicurava delle entrate economiche mettendo in vendita, proprio nella forma del pubblico incanto, alcuni beni prevalentemente prodotti dalla terra o latte, burro e formaggio, che venivano acquisiti personalmente dal parroco o dagli amministratori della chiesa come forma di pagamento di decime o di altri obblighi o di lasciti testamentari.

Questa usanza ha dato luogo al primitivo mercato della comunità, che si sarebbe in tal modo sottratta al pagamento dei dazi, cioè al pagamento delle imposte indirette, sui beni prodotti e consumati in loco, se le terre della Valsassina non avessero già goduto, dalla fine del medioevo di significativi vantaggi fiscali. Questo retaggio storico sopravvive nel tradizionale incanto dei canestri, in occasione della nostra festa, dove il ricavato è sempre stato destinato alle spese di manutenzione dell’edifico sacro.

Nelle carte vecchie della amministrazione della nostra parrocchia o dei due oratori di S. Antonio e S. Giovanni, troviamo spesso evidenza dell’uso di questo strumento. Ed è sempre emozionante imbattersi nelle registrazioni dei libri di amministrazione che annotano, per esempio che nel 1682 si erano ricavati dei soldi, scossi da Domenico Maglia per aver acquistato con la forma del pubblico incanto alcune staia di frumento. Così come quasi un secolo dopo, Carlo Nibal sempre della famiglia dei Maglia, che era il prestinaio di Esino Superiore, acquisì anch’esso nella forma del pubblico incanto una quantità considerevole di frumento di proprietà della chiesa.

In questo secondo caso è interessante fare un ulteriore osservazione. Carlo Maglia della casata dei Nibal, era l’unico prestinaio presente in paese, ed era evidente che era il potenziale cliente più interessato all’acquisto del frumento di cui disponeva anche con certa abbondanza la chiesa. L’operazione si sarebbe potuta fare, come si direbbe oggi, con una negoziazione diretta, ma il grande rispetto che a quell’epoca esisteva verso il bene pubblico, richiedeva anche in casi del genere, l’applicazione della procedura d’incanto, che oggi si configurerebbe nella forma di una gara pubblica e non di una trattativa privata.

Ciò che colpisce la nostra attenzione, studiando le vecchie carte che riguardano la chiesa di S. Antonio e le famiglie di Esino Superiore, va però ben oltre le dimensioni di laicità della festa odierna, e ci riporta invece ad una religiosità di cui si è perso traccia e che ha costituito il filo conduttore della storia della comunità di Esino Superiore.

La copresenza di due S. Antonio

E allora torno al 1662, alla benedizione e inaugurazione della bellissima statua di S. Antonio da Padova, collocata sull’altare di destra della nostra chiesetta. Ma sorge subito una domanda: cosa ci fa S. Antonio da Padova nella chiesa dedicata a S. Antonio Abate? A cui ne segue un’altra: quale S. Antonio si venera in questa chiesa?

La risposta all’ultima domanda sarebbe ovvia: Sant’Antonio Abate, detto anche del porcel, protettore degli animali, quello che festeggiamo proprio il 17 gennaio. I fatti però non dimostrerebbero tutta questa ovvietà e consapevolezza. Abbiamo spesso visto o sentito dire, soprattutto nel passato, di persone che andavano a pregare S. Antonio e ad accendere una candela per una sua intercessione. Ma ciò che incuriosiva è che si rivolgessero al S. Antonio dell’altare di destra, anche perché il candeliere votivo è posto vicino a quell’altare. Ed è nell’altare di destra che è collocata la bellissima statua di S. Antonio che certamente attira di più i fedeli per la preghiera e le richieste di intercessioni, che non il dipinto della pala dell’altare maggiore dove è rappresentato S. Antonio Abate, con S. Sebastiano assieme alla Vergine Maria con il Bambino in braccio.

Ma c’è di più. Quante volte gli anziani erano soliti passare all’esterno della chiesa, in prossimità della nicchia sporgente dell’altare di S. Antonio da Padova, facendo scorrere le mani sotto il basamento consunto della statua per baciare i piedi del Santo? La consunzione di quel basamento è l’evidenza di quanto sia antico e sia stato ricorrente quel gesto, oggi del tutto sconosciuto.

Possiamo allora dire con ragionevolezza che molto spesso si è praticato il culto di S. Antonio Abate, considerandolo patrono dell’oratorio di Esino Superiore e festeggiandolo il 17 gennaio, ma rivolgendo però le preghiere e le richieste di intercessione a S. Antonio di Padova, di cui si erano perse le tracce di come fosse capitato nella nostra chiesa.

Prima di chiarire questa curiosità soffermiamoci sull’identità di questi due santi.

I due santi

  1. Antonio Abate che nell’iconografia, anche nella nostra chiesa, viene raffigurato come un vecchio con la barba bianca e vestito come un eremita fu il primo monaco anacoreta cristiano della storia le cui vicende terrene sono ambientate nel III secolo nel lontano Egitto, dove nacque, quando la religione dell’Impero Romano era quella pagana. La qualità che sembra peculiare ad Antonio sembra essere quella di taumaturgo e la santità di questo monaco sembra capace di guarire tutte le malattie e per questo diventa uno dei primi santi e dei più importanti.

Il suo culto si definì e si diffuse in Francia a partire dal 1070 quando giunsero le sue reliquie. Il potere di vincere la malattia in una realtà sostanzialmente priva di medici e di medicine ne ingigantiva il ruolo. Così anche il potere di vincere il fuoco in un panorama dove le case erano fatte di legno e di paglia può farci capire quanto fosse rispettato. Ma anche il potere di proteggere gli animali dove questi erano garanzia di sopravvivenza, oltre che fondamentale fonte di energia e principale mezzo di trasporto, rendeva il Santo centrale nel mondo contadino e non solo. Ecco perché la benedizione degli animali era, a questo proposito, una delle feste cardinali dell’anno ed era, in un certo senso, una festa per gli animali, dato che in quel giorno erano esentati dal lavorare. Nel corso degli ultimi secoli, la benedizione rappresentava il momento durante il quale il contadino ringraziava l’animale per il contributo svolto nel lavoro agricolo. Dato che la morte di un animale era vissuta come una tragedia, era meglio aggraziarsi il Padre Eterno, soprattutto attraverso il Santo protettore degli animali.

  1. Antonio da Padova, come comunemente viene chiamato, anziché S. Antonio di Padova perché invece era nato a Lisbona in Portogallo, era un frate francescano che vide e ascoltò di persona S. Francesco. Il suo nome venne affiancato alla città di Padova perché qui ha avuto luogo la sua attività più significativa ed è morto nel 1231 a 35 anni.

Le sue reliquie sono custodite a Padova nella Basilica del Santo, dove sostano da secoli, quotidianamente in preghiera numerosi pellegrini e devoti. E certamente, tra quei pellegrini ci sono stati molti esinesi migranti che frequentando nei secoli passati Venezia per ragioni di lavoro, si sono fermati in preghiera sulla sua tomba.

Ma come e quando giunse a Esino Superiore il culto di S. Antonio Abate?

Ci vorrebbe più tempo per formulare delle ragionevoli ipotesi.

Possiamo invece dire che di una prima antica cappella, dedicata al Santo, si ha già traccia nel Quattrocento, non escludendo che la decifrazione di non pochi atti notarili ancora da interpretare potrebbero riservarci delle interessanti sorprese. E in questa prima cappella dichiarata consunta dal tempo da Carlo Borromeo nella sua visita pastorale, si ha evidenza dell’esistenza di due altari, di cui il secondo dedicato a S. Sebastiano e fatto costruire da un Bertarino Henrico che era emigrato a Genova e che faceva sicuramente parte di quella prima classe di parrocchiani che prete Penna descrisse minuziosamente in una sua bellissima relazione a Carlo Borromeo, indicando che costoro avevano edificate le chiese e fabbricati li oratori dotandoli di copiosi redditi e bellissimi paramenti e che la maggior parte di questi uomini erano andati ad abitar fuori, in varie parti della Italia e della Franza. Questa prima cappella venne demolita dopo la costruzione della nuova chiesa, l’attuale, agli inizi del Seicento. La volontà fu di fare un nuovo edificio imponente ed è curiosa questa decisione per la povertà della gente. L’opera per essere terminata con i suoi tre altari richiese quasi un secolo.

La ricerca e lo studio della storia delle famiglie di quei secoli e in particolare dei Bertarini, i più numerosi, ma anche i Carganico, così come della religiosità di tutta la comunità locale, ci stanno riservando delle interessanti sorprese che saranno oggetto di prossime pubblicazioni.

Le due patrie: Esino Superiore e Venezia

Ed è proprio nell’osservare l’ultimo altare laterale eretto, quello di sinistra al “lato del vangelo”, di fronte all’altare di S. Antonio di Padova, che si hanno interessanti indizi che ci conducono a Venezia e all’emigrazione economica del passato.

Centinaia di documenti consultati, soprattutto riferiti al Seicento e Settecento ci portano infatti a Venezia che era la seconda patria per molte genti di Esino Superiore. Lo studio delle carte ci sta aprendo la strada a una ricostruzione storica fino a poco tempo fa inaspettata.

L’altare di San Giuseppe fu eretto nel 1683 per volere della comunità e dei confratelli emigrati esinesi, congregati sotto lo stendardo di San Giuseppe nella città di Venezia, dov’era priore Pietro Bertarino suocero del notaio Ambrogio Bertarino. Entrambi appartenevano al casato dei Luch che aveva capostipite nella prima metà del Cinquecento un certo Maffeo che prete Penna indicò essere stato armigero a Città di Castello. Il notaio Ambrogio con il figlio notaio e il nipote altrettanto, ci hanno lasciato migliaia di importanti atti notarili, che uniti a quelli di tanti altri notai del territorio, ci consentono di ricostruire la storia delle famiglie assieme a quella della comunità. A sua volta il notaio Ambrogio ci racconta in altro scritto, l’importante e complicato viaggio e soggiorno a Venezia nel 1702, durato ben sei mesi, in occasione della morte del suocero Pietro per occuparsi della gestione dei cospicui lasciti in eredità.

I viaggi del tempo si svolgevano sempre in condizioni di rischio e molto rocambolesco fu quello di ritorno, dove al notaio gli occorsero tre pericoli di cui si salvò dal più pericoloso invocando la protezione di S. Antonio di Padova e il camerata delle Anime del Defunti e pertanto giunto a Brescia rese grazie alla Beata Vergine Maria nella chiesa dei Gesuiti dove fece fare un quadretto di voto da esporre nella chiesa di Sant’Antonio di Esino.

Ma per aver risolto favorevolmente anche i contenziosi per l’eredità del suocero, provvide a pia devozione di Pietro Bertarino all’acquisto di una pisside d’argento per la chiesa di sant’Antonio da utilizzarsi per portare la comunione agli infermi, su cui fece incidere le lettere H.P.B., che indicavano gli eredi di Pietro Bertarino, ad usum infirmorum Exini sup. 1702.

La celebrazione eucaristica nella chiesa di S. Antonio, prevalentemente in osservanza al culto dei morti e la comunione agli infermi che non erano pochi a quei tempi, ebbe sempre grande attenzione nei sacerdoti e nella popolazione. C’è un documento interessantissimo di prete Penna che scrisse, sempre nella seconda metà del Cinquecento, al vicario dell’Arcivescovo per chiedere l’autorizzazione ad alienare un bene di poco valore del beneficio, la cui rendita annua sarebbe stata esigua e di poco utilizzo, mentre la sua vendita avrebbe consentito di ricavare moneta per l’acquisto immediato di un paramento verde e un messale assolutamente necessari per celebrare la messa almeno in occasione di comunicare gli infermi di questa Villa. Nel testo dello scritto di prete Penna ci sono anche altre importanti informazioni, quando sostiene che questa necessità è dovuta specialmente nel tempo di grandi piogge che accrescono i doi (due) torrenti che scorrono in questa Villa e la chiesa parrocchiale è assai lontana e anche in tempo di grosse nevi che sogliono cascare in queste montagne e mancando la celebrazione della messa mancava ancora la devozione e qualche oblazione di questo popolo verso la detta chiesa con detrimento delle anime.

Le vie per scendere da Esino Superiore verso la Crocetta, l’attuale località della Montanina, da dove iniziava la strada verso la chiesa parrocchiale erano due, quelle che furono chiamate con la prima toponomastica viaria la Contrada Grande, oggi Via Agueglio, e la Contrada del fontanino del Pozz, oggi via XXV Aprile. Orbene quelle due vie, altro non erano che due malmessi sentieri a fianco di doi torrenti (due vallette) che raccoglievano le acque che scendevano dalla montagna e che, in tempi di grandi piogge rendevano impraticabili le due strade, sicuramente per la popolazione anziana che aveva sempre anche delle infermità.

Ma prete Penna ci offre un’altra importante osservazione che sembrerebbe essere di attualità.

Infatti, ci dice che le avversità atmosferiche che rendevano impossibile il raggiungimento della chiesa parrocchiale o la mancanza della strumentazione liturgica per la celebrazione nella chiesa di S. Antonio, facevano mancare la messa a una parte della popolazione, con il venir meno della devozione e quindi con il detrimento delle anime, e con un sano realismo anche la mancanza di qualche oblazione, anch’essa assolutamente necessaria per garantire tutto il necessario per le funzioni religiose.

Con il tempo, la comunità e soprattutto le famiglie più benestanti come i Bertarini e i Carganico, si sono sempre fatte carico di questo importante servizio religioso che era, nella cultura del tempo e se ne ha evidenza negli atti dei notai e nelle visite pastorali degli arcivescovi, i cardinali Odescalchi e Pozzobonelli.

L’attenzione delle famiglie all’oratorio di S. Antonio si concretizzò anche con l’istituzione di diverse cappellanie e con la nomina di un cappellano a cui veniva garantito un salario e una abitazione per l’incarico della celebrazione quotidiana della messa.

Carlo Maria Carganico e la prima scuola

Uno dei più grandi benefattori, di cui si sono rinvenuti importanti documenti, tra cui due testamenti, fu Carlo Maria Carganico che anch’esso possedeva una importante bottega di ferraro e ramaro a Venezia. Costui, nato nel 1697 e morto nel 1744 istituì ben due cappellanie nella chiesa di S. Antonio, con conseguente beneficio e precise disposizioni per la scelta e la nomina dei cappellani. Dispose che ai cappellani fosse assegnata la casa contigua alla sua abitazione con metà orto. Ma ciò che colpisce di più nelle sue decisioni testamentarie è l’assegnazione di un ulteriore salario al cappellano con l’obbligo di fare scuola ai bambini e ai giovani delle due terre, aggiungendo che proprio per questo ulteriore incarico, il cappellano designato dovesse essere una persona dabbene, e virtuosa a cui esprimere massimo rispetto per il ruolo che dovrà adempiere nella scuola.

Questa notizia, non nota fino a poco tempo fa, ci ha permesso di conoscere nella storia della chiesa di S. Antonio anche Carlo Maria Carganico che a tutti gli effetti fu un filantropo, che dedicò gran parte delle sue risorse al perseguimento del bene altrui e di obiettivi di finalità sociale, tra cui l’istruzione e il sostegno alla cultura, nonché alla garanzia della miglior cura delle anime come mezzo di inclusione.

Ma Carlo Maria Carganico era anche un visionario, e consapevole che la povertà delle terre esinesi non poteva offrire benessere ai giovani, considerava l’occasione delle migrazioni a Venezia una buona opportunità per il loro futuro, se però l’esercizio del mestiere non si limitasse al garzone o al solo lavorante. E indirizzava i giovani a metter su bottega, facendo una scelta imprenditoriale, che richiedeva però di saperla gestire e quindi voleva dire saper leggere, saper far di conto e praticare la dottrina cristiana. Erano i più importanti insegnamenti di quel tempo.

Gli insegnamenti del Carganico altro non erano che i buoni esempi di chi l’aveva preceduto, di cui abbiamo copiosa documentazione nei lasciti delle cappellanie istituite in precedenza. E l’eredità morale del Carganico continuò ben oltre la soppressione delle cappellanie imposta dalle leggi eversive successive alla terza guerra d’indipedenza.

In epoche più recente una lapide in piazza ricorda Giosuè Maglia con la moglie Anna Carissimo. Anche costoro si fecero carico che fosse garantita, lasciando alla chiesa un importante legato, la celebrazione festiva della messa a S. Antonio per chi non poteva raggiungere la chiesa parrocchiale. Poi con il tempo si affievolì il bisogno religioso e così il suo ricordo storico.

Cosa portare nel futuro

A conclusione di questo breve excursus storico, possiamo dire che la festa di Sant’Antonio è anche l’occasione per ricordare le origini e la storia di questo oratorio, che non sono solo quelle di un edificio sacro costruito più di cinque secoli fa, riedificato agli inizi del Seicento, continuamente abbellito e manutenuto fino ad oggi, con l’ultima straordinaria opera di rifacimento del tetto.

È la storia plurisecolare delle genti che, anche migranti per il mondo, attorno alla prima cappella dedicata al Santo, hanno costruito una comunità, praticando il timor di Dio attraverso il culto dei santi, l’unica catechesi di quel tempo, in un percorso di fede solido e duraturo che hanno trasmesso in eredità alle tante generazioni che si sono succedute. E nei vari passaggi generazionali dell’eredità di un tempo, il messaggio tramandato era: ora tocca a voi.

Dell’eredità che ci è giunta è stato colto solo quello che abbiamo capito o che è sembrato più conveniente, e lo abbiamo portato nel futuro denominandolo tradizione.

La tradizione è però fatta di tante cose: beni materiali, opere importanti come l’oratorio di S. Antonio, esempi di vita, cultura, storia. Cosa ne sarà di tutto ciò nel prossimo futuro?

Oggi, abbiamo la responsabilità di continuare la tradizione, riscoprendo molte cose di quel passato, probabilmente poco conosciute, che meritano anch’esse di essere portate nel futuro. Questa è la memoria storica; occupandosene è lo scopo della ricorrenza.