I libretti della spesa, tipicamente con la copertina nera, sono la testimonianza di una vecchia modalità di acquisto in auge fino agli anni settanta del secolo scorso.
Si andava a fare la spesa (a pruved) senza contanti, per il semplice fatto che non ce n’erano o ce n’erano pochi.
Il libretto era un metodo semplice, imposto dalla povertà, che permetteva il pagamento posticipato, di solito a fine mese quando il capofamiglia portava a casa “la paga” o la mandava, se lavorava lontano, oppure quando il contadino prendeva i soldi della vendita di quanto aveva coltivato o quando l’artigiano era pagato per il suo lavoro.
Erano i tempi nei quali gli affari, come la compravendita di una mucca alla fiera (a Menaggio era famosa quella di S. Carlo), erano sigillati da una stretta di mano.
Sul libretto si annotavano la spesa fatta, la data e l’importo. Era in pratica un sistema per “segnare” i crediti che venivano concessi sulla fiducia al cliente conosciuto il quale aveva la dignità di rispettare la parola data, che costituiva un impegno d’onore valido come una garanzia.
Adesso il libretto è stato sostituito dalle carte di credito elettroniche di plastica rigida, con le quali si paga il 10 del mese successivo.
Il rischio che correva il commerciante era quello di non ricevere il saldo del conto annotato sul libretto; così il credito aumentava, protraendosi a volte anche per anni.
Comunque sui crediti del libretto non c’erano interessi.
Occorre precisare che i libretti erano due: uno in possesso del cliente e un altro (una copia) rimaneva al bottegaio per il controllo, custodito in un apposto contenitore di legno con scomparti in ordine alfabetico. Ovviamente sorgevano discussioni quando i due libretti riportavano importi differenti per modifiche disoneste apportate da uno dei due soggetti; a volte c’erano evidenti segni di cancellature o di pagine appositamente macchiate o peggio strappate.
Solitamente era la mamma, “la madre di famiglia”, che si preoccupava degli acquisti; pochissimi erano gli uomini che entravano in bottega, qualche volta entravano i ragazzi, ma con in mano una nota ben precisa degli acquisti da fare, scritta dalla mamma. Alla mamma era affidata la gestione dei soldi, che potremmo definire bilancio familiare; a fine mese pagava il conto della bottega, la bolletta della luce e provvedeva alle spese straordinarie. Il libretto le serviva anche per tenere sotto controllo quanto si stava spendendo giornalmente.
La bottega era di solito una per paese ed era fornita di tutto, dal pane, pasta, olio ai salumi, alla farina, allo zucchero, alle bombole del gas; a volte c’era qualche articolo di cancelleria e di merceria.
Non esisteva la concorrenza.
Io ricordo ancora l’odore tipico, costituito da un miscuglio di aromi che tendeva al dolciastro, della bottega della Fulvia e della Sandra Fumagalli di Croce; mi ci mandava mio nonno materno, il nonno Severo, ma severo solo di nome, di nascosto da mia nonna Giovanna, per prendergli le Nazionali senza filtro, nicotina pura a basso prezzo, vendute sfuse; di solito ne acquistavo una o due ma, quando andava bene, anche il pacchetto intero, quello con la carta bianca e le scritte in azzurro
Già allora ero contro il fumo; ero ai primi anni di Medicina e passavo le estati dai nonni dividendo il tempo di vacanza tra lo studio al mattino e il lavoro al pomeriggio, al Golf come caddy; era un lavoro che mi permetteva di guadagnare, divertendomi sui campi verdi, i soldi che mi sarebbero serviti poi in inverno a Pavia. Comunque in bottega ci andavo volentieri per una specie di solidarietà maschile e perché mi sembrava giusto che mio nonno si fumasse la sua sigaretta in pace, al fresco della sera dopo una lunga, calda e pesante giornata nei campi.
I libretti della foto, ritrovati in un vecchio armadio in soffitta, hanno le copertine colorate con le scritte in oro; sono della macelleria di mio nonno paterno, il nonno Santino; la macelleria era aperta a Menaggio nello slargo di via Lusardi vicino alla chiesa.
È interessante notare che il numero di telefono del negozio, come lo chiamava lui, era il 32, perché a quei tempi i telefoni in paese erano pochi e iniziavano a diffondersi timidamente; erano considerati un nuovo lusso e guardati con molta circospezione.
Adesso, tutti abbiamo in tasca un cellulare e sono passati o meglio sono volati solo cinquant’anni!
Ma questa è un’altra storia.
Giorgio M. Baratelli
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