ROMA – Nella discussione di ieri alla Camera, sulla riforma della scuola tecnica e professionale 4+2 targata Valditara, è comparsa la parola “addestrare”, con i deputati dell’opposizione che sono insorti e che hanno ricordato al ministro che il compito della scuola è quello di educare e non di addestrare. Il ministro in tutta risposta, per sostenere la sua tesi, ha fatto ricorso alla TreccaniSulla riforma Valditara, che ha sollevato non poche preoccupazioni, abbiamo già scritto in precedenza, proprio evidenziando il rischio che l’istruzione tecnica con la riforma 4+2 si sarebbe ridotta in un progressivo addestramento professionale, a gestione regionale, e non avrebbe tenuto conto del bisogno di professioni tecniche del settore industriale che vanno ben al di là del pur importante “addestramento professionale”.

Nell’attesa di riprendere l’argomento, con tutti gli approfondimenti necessari, in occasione dell’inizio del prossimo anno scolastico, vogliamo pubblicare ancora l’opinione del nostro columnist, l’esperto originario di Esino Lario Valerio Ricciardelli, tra l’altro autore di un libro molto dettagliato sull’importanza dell’istruzione tecnica e delle professioni tecniche.

Titolo: “Ricostruire l’istruzione tecnica Ultima chiamata per rimanere la seconda manifattura in Europa, salvare la nostra economia e preservare il nostro welfare”, di cui riportiamo il link di una presentazione discutendo con il prof. Panzarani, esperto di business innovation.

Ing. Ricciardelli, torniamo da lei un’altra volta, per chiederle un parere “a caldo” sulla discussione di ieri alla Camera che di fatto ha rivelato che la riforma 4+2 addestrerà i potenziali discenti che si iscriveranno agli istituti che attiveranno la riforma.

Prima di rispondere riporto anche un comunicato di un esponente del Governo che scrive sul suo sito: “La riforma dell’educazione tecnologica-professionale è legge, e quindi nuove opportunità per i nostri studenti e migliori prospettive occupazionali”. Aggiungendo: ”La riforma della filiera tecnologica professionale definitivamente approvata alla Camera dei deputati. I nostri potranno accedere a percorsi di istruzione e formazione sempre più qualificati e diversificati per una più rapida integrazione nel mondo produttivo e professionale. Al centro c’è un’offerta formativa integrata che avrà una maggiore interazione con le imprese e la possibilità di istituire dei veri e propri campus per creare reti legate alle esigenze specifiche e alla vocazione dei territori. Migliori prospettive occupazionali e una maggior competitività per le nostre aziende andranno di pari passo”.

Il mio parere, più volte espresso, è già contenuto nel libro che ha citato, aggiungendo che andrebbe accompagnato dalla lettura di un altro importante saggio dal titolo: “Trasformazione aziendale”, autori: Carminati, Gnoato, Farinella, edito da GueriniNext, che fa un quadro approfondito ed esauriente sul sistema industriale italiano, nel contesto di una economia manifatturiera globale, con tutte le trasformazioni che sono in atto. Quest’ultimo testo, per l’approccio metodologico e i contenuti, può essere considerato la grammatica e la sintassi per descrivere il sistema delle nostre aziende, che è molto diverso da quello degli altri paesi con cui dobbiamo confrontarci.

Fatta questa premessa, devo ribadire, dopo quanto ancora sentito nel dibattito alla Camera, che siamo in presenza di una riforma completamente decontestualizzata dalla realtà.

Chi ne discute non conosce l’argomento, ed è grave, e potrei fermarmi qui.

E a riguardo del termine “addestramento”?

Valerio Ricciardelli

È una riforma che, con un processo “in diminutio” sta trasformando l’istruzione tecnica, quindi la “techical education” che è una cosa ben precisa, in un addestramento professionale.

Ora, che ci sia un bisogno di addestramento professionale, ovvero di mestieri per quella che è chiamata la filiera produttiva, quali operatori di lavorazioni varie, meccaniche, saldature e altro ancora, è vero, ma ci si provvede con un piano straordinario di formazione professionale come è stato fatto molte volte nei decenni passati.

La nostra economia industriale, quella che è in sofferenza e che è la seconda manifattura in Europa dopo la Germania, ha bisogno di ben altro, di ben altre professioni, di ben altri saperi, di ben altra istruzione. I presupposti fondamentali su cui si deve agire sono i fattori della produttività del nostro sistema industriale (un settore economico dove la crescita è piatta da decenni e il costo del lavoro per unità di prodotto è salito rispetto a quanto è successo altrove) e i fattori dell’innovazione. Tutto ciò ha bisogno di ottimizzare le prestazioni dei processi strategici delle aziende, che non sono solo quelli produttivi, tutt’altro.

Le professioni tecniche delle aziende del settore industriali che afferiscono alla filiera produttiva sono in minoranza rispetto alle professioni tecniche che afferiscono alla filiera non produttiva. Noi abbiamo in Italia importanti imprese che commerciano sofisticati beni industriali, prodotti ovviamente altrove, e queste aziende hanno bisogno di sales engineer, di product specialist, di commissioning engineer, di esperti di supply chain, insomma di tutte quelle competenze specialistiche riguardanti il miglior ambito applicativo di prodotti ad alto contenuto di innovazione per attivare   una crescita economica ed occupazionale (quest’ultima non precaria) immediata e duratura nel Paese e competere in una economia mondiale sempre più complessa. Una riforma deve tener conto di tutte le realtà e delle trasformazioni in corso e non solo di un pezzo, ma queste realtà vanno conosciute in modo molto approfondito.

Insomma, non si discute la buona volontà del Governo di riformare la scuola partendo dall’addestramento, ma serve ben altro al nostro Paese, e in fretta. Servono anche gli istituti tecnici del made in Italy (e non un liceo del made in Italy)per creare le competenze e le professioni che aiutano le nostre imprese della “meccanica strumentale”, cuore del made in Italy, ad aprirsi nuovi mercati di esportazione nel settore del “machinery industriale”, dove saremmo molto competitivi se ci fosse una politica industriale di cooperazione adeguata. Ecco perché abbiamo bisogno di una grande riforma dell’istruzione tecnica, fatta con una rivoluzione copernicana, e costruire un sistema di eccellenza europeo pari a quello della Germania. Già abbiamo avuto precedenti riforme dell’istruzione tecnica in diminutio, tutte sbagliatissime. Queste ultime hanno ridotto il “pezzo” più importante del nostro ordinamento scolastico, ossia l’istruzione tecnica, in un percorso di serie B, molto poco attrattivo per gli studenti e proposto ancora come una scelta scolastica per chi ha poca voglia di studiare. Questa è la realtà che va smantellata con una coraggiosa rivoluzione copernicana che non può essere fatta con la riforma 4+2.Ma di tutto ciò ho già scritto argomentando le mie posizioni.

Ma l’opposizione ha una visione alternativa a quella del Governo in merito alla riforma 4+2?

A me non risulta. Ieri la discussione si è concentrata sul termine “addestramento”, osservando che la scuola non deve “addestrare” ma deve educare, da cui il ricorso del ministro alla Treccani.

L’osservazione da fare era però ben diversa e sul merito: non trasformare o comunque non incamminarsi in un percorso che di fatto trasforma l’istruzione tecnica in un addestramento professionale; quindi il piano della discussione doveva essere portato sulla differenza tra il concetto di istruzione tecnica (technical education) e di addestramento professionale. Ma per discutere queste cose bisogna conoscere molto bene l’argomento e nessuno lo conosce.

Cosa suggerisce?

Non c’è alternativa: bisogna continuare a parlarne ma con contenuti precisi. Creare la massima sensibilità nell’opinione pubblica. Occorre stimolare dibattiti pubblici, però con esperti della materia. È anche l’obiettivo del libro che lei ha citato e che sta trovando molta attenzione.

Perché non ne invia una copia a chi si deve occupare di queste cose?

A qualcuno l’ho inviata, ma se l’esito è la discussione di ieri alla Camera è tempo perso.