L’amore che consuma e dalla morte salva. Una fenice che rinasce dalle sue ceneri al suono di un erotismo libero, popolare e magicamente vissuto, dove Eros e Thanatos si sfidano rincorrendosi senza sosta, in un gioco di specchi che riflette il contrasto tra epoche lontane e presente repressivo. Pier Paolo Pasolini concepì così, da una riflessione sul tempo e le sue tante sfaccettature, quella trilogia che poi avrebbe definito «della vita», aperta da una revisione del Decameron boccacciano (1971) e conclusa da Il fiore delle Mille e una notte (1974), rilettura delle celebri novelle arabe da lui apprezzate soprattutto nell’edizione curata da Francesco Gabrieli (I Millenni, Einaudi 1948).
Nel 1970, una lettera scritta al produttore Franco Rossellini svelò l’intenzione del regista di trasferire su celluloide il capolavoro di Giovanni Boccaccio, risposta – come ritengono alcuni critici – al felliniano Satyricon di Petronio, pellicola del cineasta riminese che Pasolini non aveva amato. Nella missiva non v’è menzione al Trittico della vita, né tantomeno ai suoi motivi dominanti, che andranno delineandosi nel corso dei mesi e dei numerosi viaggi compiuti.
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