Li avevo visti per la prima volta nell’ora del desinare.
Io ceno presto, verso le sette, ma “logicamente” mi aspetto che tutti gli altri lo facciano verso le settemmezzo, otto.
Ero salito nel mio studio, a quell’ora, per navigare un po’ in Internet e, siccome non ci sono tende alle finestre, lo sguardo era caduto alla casa di fronte. Fuori, nel piccolo quadrato adibito a verde, proprio fianco l’appartamento di competenza, stavano due persone, un uomo e una donna. Lui, sessanta, sessantacinque anni, occhiali da vista fumè e capelli bianchi col vuoto in mezzo, era alle prese con una minuziosa ispezione del terreno; lei, che doveva avere pochi anni meno e si era protetta il capo con un ampio foulard, stava invece accomodata in una sedia di plastica bianca, dandomi le spalle.
Evidentemente erano i nuovi proprietari.
Il giardino nel quale si trovavano, era in gran parte tappezzato da quadrati bianchi in cemento ricoperti da sassolini, e siccome se ne potevano contare otto per lato, non potevano essere che sessantaquattro. Sulla destra, era stato piazzato un camino per barbeque; in fondo, invece, il terreno sgombro s’impennava e raggiungeva la rete di confine, dando facoltà all’erba di sfoggiare un bel verde.
I due, che potevo solo vedere ma non sentire a causa dei doppi vetri, erano rimasti a lungo in quel luogo, come se dovessero decidere cosa fare: lui sempre aggirandosi meditabondo; lei sempre seduta immobile, in religioso silenzio, sulla bianca pavimentazione.
Il giorno dopo, alla medesima ora, la curiosità mi aveva spinto a dare un’altra occhiata: lei stava sempre seduta di spalle, capo coperto; lui, invece, zappa e vanga, aveva preso a dissodare il terreno in fondo, tramutando il verde in marrone. Evidentemente, era uno di quelli con l’orto come svago.
Nei giorni a seguire, la mia supposizione aveva avuto conferma: erano spuntati pali, delimitazioni accurate e piantine in filari ordinati, il tutto sempre sotto l’occhio vigile della donna piazzata nella sua sedia bianca.
Il terreno aveva perso ogni libertà, così ingombrato, quindi l’uomo si era dato da fare per ottenerne altro, asportando una bella fetta di pavimentazione, otto mattonelle, quelle più vicino alle coltivazioni. La donna, quasi sicuramente la moglie, aveva condiviso questa sua intraprendenza, approvando muta dalla sua sedia, sempre a capo coperto.
L’orto stava acquistando sempre più importanza.
I giorni avevano preso a scivolare via, intanto che le piantine nell’orto non smettevano di crescere e la pavimentazione, fila per fila, andava sparendo.
La donna, cui non avevo ancora potuto scorgere i lineamenti, aveva persistito nella sua abitudine di osservare il marito, ben piazzata nella sua bianca sedia. Ma le quadrate mattonelle, in modo lento ma inesorabile, avevano imboccato la strada del non ritorno, rendendola simile ad un naufrago che, su di un’isola deserta, assiste impotente all’avanzare dell’alta marea. Dove avrebbe potuto mettere la sedia se il marito avesse perseverato nella sua tattica?
I giorni non avevano certo smesso di succedersi uno all’altro, facendo in modo che piante e pali aumentassero di numero e di statura. Quel giardino stava diventando un orto da Guinness.
Un giorno, sempre verso sera, avevo notato però che la donna, con la sua sedia, stava sull’ultima fila di pavimentazione rimasta, le ultime otto delle sessantaquattro iniziali. Tutto il resto era sparito, per lasciare il posto all’assortita coltivazione.
L’uomo dai capelli bianchi, invece, stava sempre affaccendato, completamente assorbito dalla sua passione: vangava di qui, metteva pali di là; potava da una parte, trapiantava dall’altra. Era un moto perpetuo, qualcosa che poteva addirittura far invidia.
La sera dopo, sempre nell’ora del desinare, ero tornato a buttare l’occhio, intanto che il computer s’accendeva: la bianca pavimentazione era sparita del tutto, e con lei la donna e la sedia. Al loro posto, era sorta una piccola serra, alla quale stava dedicando amorevoli cure l’uomo.
Quando però avevo notato la straordinaria somiglianza fra il copricapo che portava la donna e il materiale col quale l’uomo stava rivestendo la serra, non avevo potuto impedirmi di farmi correre un brivido lungo la schiena.
Emanuele Tavola