Tutto è nato per caso, come d’altronde per quasi tutte le vicende umane. Le nove di sera, vien giù che Dio la manda. Sto guidando. Non è che abbia fretta di rincasare, tanto non c’è nessuno che mi aspetta, ma ci si adagia alla routine. La macchina singhiozza, va avanti a balzi per qualche metro, poi il motore si spegne. Faccio solo in tempo ad accostare. Tiro giù tre madonne. Recupero il cellulare dal marsupio: fanculo, batteria scarica. Altre madonne. Dopo essermi inimicato tutto il firmamento celeste, decido di scendere. Lascio perdere l’ombrello, c’è un bar a pochi metri. Mi precipito, inseguito da onde anomale. Baraonda, si chiama il bar, è in tema col tempo. Spero ci sia un telefono. Dentro, l’anonimo locale di periferia: qualche poster su milaninteriuve, le freccette, il tavolo da biliardo in fondo. Una tristezza. Una manciata di sfigati datati son la ragion d’essere di quel posto: guance rubizze e occhio lucido, culo basso a tener su il pancione. Sono infervorati, solo loro sanno come far vincere la loro squadra e come salvare il mondo. Fanno un casino miserando davanti alla tv accesa su Sky sport. Vado al bancone: meno male, una bella ragazza riccia dagli occhi blu. Un fiore nel letamaio. ” ‘sera mister…” mi sorride. I denti sfavillano, paiono trattati alla smerigliatrice “… pigliata, vedo…” Solo in quel momento m’accorgo di grondare acqua da tutte le parti. “Non si preoccupi…” fa lei, levando le spalle e facendo una smorfia, come a dire che ormai c’è poco da salvare in quel posto “Poi passo lo straccio…” “Chiedo scusa…” sono in imbarazzo e non so che fare per impedire al torrente di sfociarmi sui piedi e sul pavimento “Posso fare una chiamata? Son rimasto in panne con l’auto…” “Certo, il telefono è là…” mi indica una nicchia seminascosta da un ficus di plastica. Chiamo il servizio assistenza dell’assicurazione, e dopo musichette varie, pigia uno, pigia due, pigia tre, ce la faccio a parlare con un essere umano. Tra un’ora dovrebbero venire a recuperarmi. Tanto vale che mangio un boccone. Torno dalla ragazza. “Avete qualcosa da mettere sotto i denti?” Mi sorride con gli occhi, intanto che asciuga delle tazze. “Certo. Quello che vuole. Panino, toast, pizza. Anche un primo, se non ha fretta…” Fretta? Proprio no. Mi metto ad un tavolino, il più possibile lontano dall’allegra brigata di avvinazzati. La ragazza mi porta da bere. “Ecco, tra poco gli spaghetti…” Ringrazio e la osservo: corpo niente male, belle gambe. Cammina anche bene, senza sculettare per farsi notare. Non ce n’è bisogno. Sa d’essere bella, ogni specchio non può che confermare. Ma è da sola a tirare avanti la baracca? Non si vede nessun altro… Siccome il cell è scarico, non posso neppure passare il tempo navigando in rete. Giornali non se ne vedono, quindi non mi resta che stare a guardare. I vecchi chiassosi li schiaccerei come mosche con una paletta gigante, ma non vedo palette. Allora, l’occhio ritorna con soddisfazione sulla ragazza: davvero bella, nulla da dire… cosa ci faccia in questo postaccio… Più la guardo e più mi piace. Notevole. Lei è affaccendata a lavar tazzine, non alza lo sguardo dal lavello, la posso ammirare con comodo. Fuori non smette di piovere all’iradiddio, cosi anche i vecchiacci non se ne vanno di certo. E poi a far che? A picchiare la moglie? Non possono certo andare ad osservare i lavori in corso, braccia dietro la schiena e aria giudicante. Arrivano gli spaghetti. “Buon appetito…” mi fa, con un sorriso che mi arriva dentro. Posa il piatto dopo aver messo una tovaglietta di carta. Osservo le sue mosse, le sue belle mani. “Non posso dire altrettanto…” sorrido anch’io “Ma ti arrangi da sola, qua, a far tutto?” Le do del tu. Mi sembra giusto. È così giovane. “C’è il capo, ma non stasera…” risponde. I suoi occhi luccicano “Ma con questo tempo, non c’è molto lavoro…” “Già. ..” non so cosa aggiungere per tenerla ancora lì. Lei aspetta qualche istante, forse per educazione, quindi sorride e se ne va. La osservo con cura finché non sparisce a metà dietro il bancone. Accidenti. Mi devo preparare qualcosa da dirle al momento del caffè. Si fa sotto invece uno dei vecchi idioti. Mi pare il più andato della congrega, a giudicare dal rosso degli occhi e dall’andatura da mozzo. “Mister, lei… lei sa perché questo… questo è un mondo di… di merda, vero? Parla e sputacchia. Spero non mi becchi il piatto. “Mah… chissà…” sto sulla difensiva, e comincio ad arrotolare gli spaghetti sulla forchetta. “Sono… sono LORO che… che comandano il mondo!” si infervora, poggiando i palmi sul mio tavolo. Mi fissa coi suoi occhi infuocati, ma io tengo lo sguardo basso “Faranno… faranno andare tutto… tutto quanto in… in rovina!” “Ma chi sono loro? ” chiedo, con la bocca piena. Non sarebbe educato, ma non credo questo tizio si scandalizzi.
“Loro!” picchia una manata che mi fa sobbalzare “Chi… chi comanda! I… i padroni del vapore, accidenti a … a loro!” “E che possiamo fare? ” chiedo. Spalanca ancor più gli occhi e mi mostra da quanto tempo non vada da un dentista. Sta per rispondere, ma non fa in tempo. “Giannino! Non dar fastidio!” gli urla la ragazza “Vai a veder la tele, che c’è la partita!” Lui si volta. “Irene… ma… ma io…” “Niente ma! “fa la ragazza “Torna a guardar la tele e non dar fastidio!” gli indica severa col dito dove andare. Il tipo se ne va, borbottante e barcollante. Beh, ho scoperto come si chiama la ragazza. Però… il carattere non le manca… Termino gli spaghetti, faccio i complimenti quando viene a recuperare il piatto, anche se onestamente non è che fossero un granché, e le dico che gradirei un caffè. Me lo sta per portare, quando entra un tizio dalla porta. Si guarda attorno. Gli faccio un cenno. È lui, quello mandato dell’assicurazione a recuperarmi. Ingollo il caffè, pago e me ne vado. Accidenti, proprio adesso che mi ero preparato qualcosa da dirle. L’indomani, verso sera, con l’auto sostitutiva, ripasso dal Baraonda. Entro: Irene non c’è. Al suo posto, un massiccio senza capelli e le braccia tatuate. Prendo un aperitivo. Alla fine mi faccio coraggio:” Scusi, non c’è Irene questa sera?” Mi guarda male. “Per fortuna no ” mi fa. Sono sorpreso. “La conosce?” mi chiede bruscamente. Non capisco il tono. “Mah, ecco, l’ho vista qua ieri sera…” “Quindi non sa dove stia di casa…” seguita lui. “No, non ne ho idea…” “Perché la cerca, allora?” “Così…” levo le spalle. Non ho intenzione di confidarmi con un essere cosi odioso. “La bella…” sottolinea bella come a dire che ha capito perché la cerco ” … se ne è andata dopo una settimana che stava qua…” “Ah…” “Non prima di avermi svuotato il cassetto, la ladra…” sbotta “Accidenti a lei. Prima ti ammalia coi suoi occhioni, poi te lo mette in quel posto…” seguita. Mi fissa feroce “Ma se scopro dov’è finita…” Son sempre sotto accusa, come fossi complice di Irene. “Mi spiace…” balbetto, poi pago l’aperitivo e me ne vado, col cuore gonfio di amarezza. Passano i giorni, quindi le settimane, e me ne dimentico. In fondo, era solo un’infatuazione senza speranza. Un pomeriggio, però, con un paio di colleghi, decidiamo di fermarci a bagnare il becco in un bar a nord della città. Bar Delfino. Non ci siamo mai stati, sta semplicemente nel posto giusto al momento giusto. Entriamo. Dietro al bancone c’è lei, Irene. È vestita in modo più provocante, ed è di una bellezza stordente. I miei colleghi continuano a chiacchierare e ridacchiare, e non si rendono conto che sono sbiancato. Mi piace ancora da morire, me ne rendo conto in pochi istanti. Le viscere si radunano timide in un angolo e faccio quasi fatica a respirare. Ci sediamo e ordiniamo da bere. Lei mi guarda giusto il tempo necessario perché dica “una birra”, poi posa i suoi occhioni sugli altri. Non sembra mi abbia riconosciuto, o se così è stato, dissimula alla grande. È in minigonna, e con una maglietta rossa scollata. La guardano tutti, chi apertamente, chi di sottecchi. Avverto una punta di gelosia, come se in qualche modo io avessi la precedenza su di lei. Il locale è bello e moderno, e la gente non manca. Nulla a che vedere con la desolazione del Baraonda. I miei colleghi seguitano a ciarlare, ed io mi limito ad annuire e sorridere di tanto in tanto. Non sto proprio seguendo i loro discorsi. Son seduto in modo da avere davanti a me il bancone: Irene non è sola, c’è pure un ragazzino e un uomo di mezza età, come me. Son tutti affaccendati. All’improvviso un pensiero mi fulmina: Irene tenterà il colpo anche li, fuggendo col malloppo dopo essersi guadagnata la loro fiducia? Ma sarà davvero una ladra, o il gestore del Baraonda ce l’aveva semplicemente con lei? Finiamo di bere, paghiamo alla cassa, al ragazzino, e ce ne andiamo. Irene è rimasta dietro al bancone, a lavar tazzine. Una volta a casa, penso a lei, e non riesco ad impedirmi di farlo per tutta la notte. Che fare? Non posso certo avvertire gli altri del bar che lei è probabilmente una ladra, e che sta aspettando solo il momento buono per colpire. Quando visualizzo con gli occhi della mente il suo bel viso, ho un tuffo al cuore. L’indomani, prima di rincasare, passo di nuovo dal Bar Delfino. Sono solo. Mi metto ad un tavolino. Irene mi vede e si avvicina: leggins neri aderenti e camicetta bianca. Uno spettacolo. Ordino una birra, poi mi faccio coraggio: “Scusi, ma io l’ho già vista in un altro bar?” Lei rimane qualche istante sconcertata. Mi fissa senza dir nulla. Forse sta cercando di tirarsi in mente dove mi ha visto.
Alla fine dice: “Al Baraonda, già…” ammette “Quello schifo di posto, coi vecchiacci rompicoglioni…” Sorrido. “Lei vi era arrivato tutto inzuppato…” “Esatto…” annuisco “Pioveva che Dio la mandava quella sera…” sorride anche lei, e che sorriso! ” … e come mai non lavora più là?” “Mi pagavano un tozzo di pane… li ho mandati a quel paese…” spiega, e sembra sincera. La chiamano, se ne va, facendomi un cenno con la mano come per scusarsi. È adorabile. Sì, son proprio innamorato di lei. Mi piace un sacco. La differenza d’età? Machissenefrega. Ordino qualcosa di tanto in tanto, per farla avvicinare e scambiare qualche parola, e per giustificare la mia permanenza. Seppur son stanco, non mi decido ad andarmene. Non so come, si fanno le tre di notte. Il locale si è quasi svuotato; il ragazzino comincia a mettere le sedie sui tavoli con le gambe all’insù. “Non ha sonno?” si fa vicina Irene, che è talmente bella e rilassata che sembra abbia iniziato a lavorare da pochi minuti. “Non particolarmente… e tu?” “Bah, ormai ci ho fatto il callo a questi orari… dormo al mattino…” si poggia allo schienale della sedia libera “E’ così la vita. E tu cosa fai per vivere?” Mi ha dato del tu! Iniziamo a chiacchierare, e all’improvviso scopriamo di avere un sacco di cose di cui parlare, cose tanto frivole ed inutili da essere bellissime. Alla fine ci provo: “Senti, ti va di fare due passi quando hai finito?” Ci pensa un momento. Sa perfettamente che si tratta di un invito. Cerca di guadagnare tempo: “Ho ancora un’ora buona qua… dobbiamo pulire…” I suoi occhi sorridono, questo è importante. Aspetterei anche qualche giorno, e su di una gamba sola, per un suo sì. Pago ed esco. La notte è bella, silenziosa. La strada è deserta, immobile, qualche luce, ma nulla di fastidioso. Vado avanti e indietro sul marciapiede, non riesco a star fermo. Seguito a guardare verso la porta del bar, nell’attesa che esca. Finalmente, verso le quattro, ecco che compare. Cammina con una leggerezza che pare scivolare sulla gelatina. È bellissima. Ricominciamo a chiacchierare, intanto che i nostri piedi ci portano dove vogliono. È delizioso stare con lei, tutto è sospeso, tutto è magico. Non oso sfiorarla, ma quanto vorrei poterla abbracciare. Seguitiamo a camminare e parlare, parlare e camminare. Non voglio guardare l’orologio, temo corra troppo in fretta. Stiamo andando verso la periferia, ma chi se ne importa. Spero solo che anche lei gradisca la mia compagnia, ma se ha accettato di uscire, è segno di si. Le strade si assottigliano, mentre le case si fan più vicine. Percorriamo zone che non ho mai visto. Ma nulla ha importanza, o forse tutto, ma in un altro senso. Con lei vicino, persino i fili dell’alta tensione che corrono sopra le nostre teste, sembrano uno schema che finalmente riveli il senso della vita. All’improvviso, però, un pensiero mi turba: non è che mi starà tendendo un agguato, per derubarmi? In fondo, non so nemmeno chi sia… La guardo negli occhi: impossibile. Camminiamo e parliamo, mentre attorno a noi qualsiasi dettaglio appare sfuocato. Pendo dalle sue labbra, che tanto vorrei baciare. D’incanto, ci ritroviamo fuori dal bar Delfino. “Beh, grazie della compagnia…”si vuole congedare lei. La fisso basito. Non può finire tutto così! “Pensa…” prosegue lei, ferma di fronte a me a trapanarmi con gli occhi “Volevo derubarti, dopo averti attirato nei vicoli, ma mi sei simpatico…” si mette a ridere “Non me la sono sentita…” Non capisco se scherzi o dica sul serio. Rimango imbambolato, forse con un’aria stupida pennellata in faccia. Mi dà un bacio sulla fronte. “Grazie…” sussurra, e agitando una mano in segno di saluto, se ne va.
Emanuele Tavola